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I protagonisti della nostra storia:
Carlo Donat Cattin
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Ettore Bonalberti, suo stretto collaboratore, ricorda il grande politico cristiano democratico a quindici anni dalla morte. Ritratto rigoroso di uno straordinario leader.
Era un grande ed irripetibile partito la Democrazia Cristiana. Con l’introduzione del sistema proporzionale per l’elezione del consiglio nazionale e il quasi contemporaneo utilizzo del manuale Cencelli per le nomine interne e di governo nacquero e si consolidarono, nel bene e nel male, quelle che sono state la quintessenza stessa della DC: le correnti.
Sorte come strumenti di aggregazione politico ideale all’epoca della nascita della corrente dorotea, quella in cui “ i pallidi salmodianti della Domus Mariae” con Moro, Segni, Colombo e Rumor decretarono la fine dell’era postdegasperiana di Fanfani alla segreteria del Partito, dopo la rottura di Iniziativa Democratica, noi che eravamo entrati agli inizi degli anni ’60 nel partito, di provenienza cattolica, cislina e/o aclista, ci ritrovammo naturaliter con la sinistra sociale della Democrazia Cristiana. Per intenderci la corrente di “Forze Nuove” nata alla vigilia del congresso di Roma del 1964, quello del mio primo incontro con Carlo Donat Cattin.
Fu quel suo impetuoso discorso contro Rumor e la sua relazione “vecchia e stantia”, due aggettivi ripetuti tra i fischi e gli applausi di una platea infiammata, che mi fece maturare l’idea che quella sarebbe stata la mia casa. E fu Forze Nuove per sempre.
In un partito che vivrà nei decenni successivi le tossine di aggregazioni sempre meno tenute insieme da ragioni ideali e sempre di più dalle mire del potere, noi fummo tra coloro che restarono fedeli all’idea di un partito diverso; un partito in cui i lavoratori di ispirazione cristiana potessero, da un lato, restare coerenti ai loro ideali e in grado di collegare i loro interessi e valori a quelli del ceto medio produttivo (questa saldatura resterà per sempre uno dei grandi meriti storici della DC), e, dall’altro, porsi in alternativa al classismo della sinistra egemonizzata dal PCI.
Leader incontrastato per quasi trent’anni di questo gruppo, dopo l’esperienza congiunta sindacale e politica con Rapelli e Pastore, fu Carlo Donat Cattin, di cui fummo discepoli e amici per tutta la vita.
Nella buona e nella cattiva sorte, sempre pronti a seguirlo nelle battaglie più coraggiose che il nostro leader seppe condurre con permanente lucidità e lungimiranza, grazie ad un metodo di lavoro politico che resterà nella storia della DC, quale esempio, quasi solitario, di una partecipazione democratica e di elaborazione teorica e di organizzazione politica di grande spessore.
Fummo allevati alla scuola dell’impegno e della coerenza ai valori della dottrina sociale della Chiesa, alle ragioni dei lavoratori e dei ceti popolari, per i quali l’interclassismo dinamico cui ci ispiravamo, costituiva la base indiscutibile della nostra militanza politica.
E fummo, soprattutto, un gruppo unito e tra i più agguerriti del partito. Quelli che, con una felice immagine del caro e compianto Vito Napoli, furono descritti come i “vietcong della DC” costretti a combattere con le cannucce a pelo d’acqua, nel vasto e limaccioso fiume di natura deltizia come la DC, progressivamente dominata dai moderati, nella stagione migliore e, poi, da quei “capaci, capacissimi, capaci di tutto”, che caratterizzarono la stagione più impervia e difficile, negli anni ’80 a dominanza demitiana dentro e fuori il Partito.
Dalle ragioni del primo centro-sinistra, a quelle della solitaria lotta con Aldo Moro nel tempo del doroteismo trionfante, sino alla battaglia contro l’ingresso del PCI al governo (straordinario il suo intervento all’assemblea dei parlamentari DC in cui, solo alla fine, obtorto collo, come sempre fedele alle indicazioni strategiche di Aldo Moro, dovette soccombere alla prevalente realistica decisione dei gruppi) e a quella successiva che lo accompagnerà alla morte, con la grande intuizione del “preambolo” e della strenua difesa dell’alleanza tra la DC e i partiti di ispirazione laica e socialista.
Quell’alleanza, sconfitta la quale, con il determinante concorso di Mani Pulite, siamo precipitati in questa stagione perigliosa della cosiddetta “Seconda Repubblica”.
Tracciare dopo quindici anni dalla scomparsa di Carlo il bilancio di un’esperienza che ha coinciso quasi perfettamente con quella stessa della nostra vita politica attiva, significa ripercorrere le innumerevoli occasioni di incontri, di dibattiti, di riunioni notturne romane e nelle nostre diverse realtà regionali e provinciali. Rivivere le ansie e le preoccupazioni di decine e decine di congressi provinciali, regionali e nazionali. Un’infinità di tempo sottratto alla famiglia, agli impegni di studio e professionali, per dedicarsi pressoché totalmente e gratuitamente alla testimonianza di una militanza e di una fedeltà mai venute meno.
Da Carlo abbiamo imparato la lezione di una politica ancorata agli ideali, fatta di approfondimento teorico, esercitato nelle lunghe discussioni e nel confronto anche duro e permanente tra di noi, e di esercizio pratico, alle prese di un partito in cui si doveva fare i conti con le tessere, con le preferenze, con le inevitabili tentazioni non sempre commendevoli del potere.
Noi che abbiamo avuto la fortuna, se non proprio il merito considerato che mai esercitammo autentici ruoli di potere, di restare sempre al di qua dei limiti corretti dell’esercizio onesto della politica, possiamo a pieno titolo testimoniare con quanta straordinaria coerenza Donat Cattin, anche su questo fronte, seppe rappresentare per molti di noi un modello di vita e di positivo riferimento.
Non estraneo né insensibile al richiamo del potere, senza del quale la politica si riduce a mera testimonianza, Donat Cattin seppe sempre far prevalere le ragioni ideali. Lo fece quando, in più occasioni, gli aiuti finanziari che, certo, non mancarono alla nostra come alle altre ben più attrezzate correnti, per sua insindacabile decisione andavano a sostenere la voce democratica della “Gazzetta del Popolo “ di Torino piuttosto che le nostre talora petulanti richieste di aiuto per il tesseramento, nel quale rincorrere i dorotei et similia era per noi una partita persa in partenza, come “ giocare a poker con l’Aga Kahn”….
O quando, ed era il suo cruccio e il suo impegno costante, si trattava di tenere in piedi riviste che hanno fatto la storia politica e culturale della DC, da “Sette Giorni” a “Terza Fase”. Per non dimenticare i nostri appuntamenti annuali di Saint Vincent, uno dei pochi momenti di approfondimento culturale e politico aperto a tutte le idee dentro e fuori della DC. Furono questi gli strumenti e le occasioni in cui si formò e visse la nostra generazione politica. Quella dei giovani del 1964 che rimasero con Carlo sino alla fine.
Con lui soffrimmo il dramma di un padre colpito negli affetti più cari, prima, dalle vicende brigatiste di Marco, le cui colpe gli furono fatte così pesantemente pagare sul piano politico e, poi, direttamente al suo cuore, dopo l’incidente mortale dello stesso figlio, viatico inevitabile di quella morte in ospedale a Montecarlo che ci ha lasciati drammaticamente soli e senza più guida.
Nel mio studio conservo una solo foto ingrandita che guardo ogni giorno con commozione nel momento in cui mi accosto al computer: Carlo ha il capo chino, davanti a me e a Sandro Fontana, mentre mi sta dando le ultime istruzioni per l’imminente intervento che, come sempre, era obbligatorio fare ad ogni consiglio nazionale.
Tante volte, quella perentoria e indiscutibile sollecitazione, a noi sembrava se non superflua, almeno inopportuna, ma il vecchio Capo insisteva ed a lui non si poteva dire di no: “ vai e intervieni”, anche perché, se ne chiedevi la ragione la risposta, tra il serio e il faceto, era disarmante: “ la truppa bisogna tenerla sempre allenata”…
Ettore Bonalberti
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In ricordo di Bartolo Ciccardini
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Caro Bartolo ci hai lasciati nel momento in cui la tua partecipazione al nostro dibattito era diventata indispensabile.
Il Signore ti ha chiamato e noi preghiamo addolorati per la perdita di un amico e di un combattente indomito per la libertà.
Hai rappresentato nella storia dei cattolici democratici e cristiano sociali una voce fuori dal coro, sempre attenta alle ragioni e ai bisogni della povera gente, così come ci aveva insegnato la nostra comune partecipazione a quella grande scuola di pensiero e di azione sociale che furono le Acli di Achille Grandi, Vittorio Pozzar, Mariano Rumor e Livio Labor.
Le tue radici nella sinistra sociale democratico cristiana furono sempre alla base del tuo impegno politico nella Democrazia Cristiana.
Anche nella lunga stagione dell’attraversata nel deserto, nello sfacelo della galassia democratico cristiana di quest’ultimo ventennio, hai saputo fornire una bussola sicura che con “Camaldoli”, la bella rivista che si è imposta all’attenzione di tutti noi, ci ha permesso di confrontarci sulle questioni più urgenti della società italiana e sul contributo indispensabile che, ancora una volta, potrà e dovrà venire dal mondo cattolico.
Giustamente ci hai indicato la strada del superamento dei vecchi schemi e dei vecchi protagonisti che, lungi dal testimoniare e difendere il valore di una grande tradizione politica, hanno finito con il perseguire la semplicistica occupazione personale di posizioni di potere, impedendo, di fatto, per gli egoismi di velleitari interpreti, quell’unità dei popolari che restava tra gli obiettivi delle tue ultime indicazioni politiche.
Un’unità da perseguire partendo dalla realtà delle nostre parrocchie e delle nostre comunità locali, dalle quali far emergere una nuova classe dirigente capace di raccogliere il testimone della migliore tradizione dei democratici cristiani italiani.
Ti confesso che eri per me l’approdo culturale e morale sicuro cui facevo totale affidamento, anche nei momenti in cui le nostre valutazioni politiche non erano perfettamente collimanti.
Ora perdo con te un amico e un maestro di cui restano, però, gli scritti approfonditi e il il ricordo indelebile di una condotta politica, culturale e morale di assoluta esemplarità.
Ora ti ritroverai in Paradiso con gli altri amici di tante battaglie, da Carlo Donat Cattin a Vittorino Colombo, da Mariano Rumor a Fanfani e Aldo Moro e noi preghiamo perché tutti voi ci assistiate in questi ultimi passi che anche noi, giunti al limitare della nostra esistenza, dovremo compiere, con l’onestà e la coerenza di cui voi siete stati fedeli testimoni nella vostra vita.
Caro Bartolo a nome di tutti gli amici democratici cristiani che ti hanno voluto bene, riposa in pace e ti sia lieve la terra.
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In ricordo di Sandro Fontana
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Sandro Fontana ci ha lasciati.
E’ stato il nostro amato “Bertoldo”, direttore de “ Il Popolo”, fraterno amico e collaboratore di Carlo Donat Cattin con il quale ha vissuto, sin dalla sua nascita, la lunga avventura della sinistra sociale DC di Forze Nuove.
Scompare con Sandro Fontana uno dei più lucidi storici e analisti politici democratico cristiani del dopoguerra.
Con l’animo profondamente legato alla sua terra bresciana dalla quale aveva saputo coniugare l’intelligenza sapiente di un’antica civiltà contadina con la formazione di una fede cattolica senza smagliature, Sandro ha rappresentato per molti di noi un punto di riferimento politico e culturale di assoluto valore.
Da lui e dai suoi numerosi saggi politici abbiamo potuto apprezzare il ruolo dei cattolici nella storia politica dell’Italia unitaria e la funzione straordinaria della Democrazia Cristiana nell’opera di promozione delle classi subalterne dei ceti contadini e operai, avendo sempre di mira la necessità di conciliare gli interessi delle classi popolari con quelli del ceto medio.
Non dimenticheremo il suo ottimismo della volontà che si accompagnava a una gaiezza dirompente che contagiava e induceva all’immediata empatia, mai disgiunto, tuttavia, da quel pessimismo della ragione che lo portava ad analizzare sempre con estrema lucidità ciò che accadeva nella realtà effettuale.
Con Sandro scompare uno degli esponenti più autorevoli della DC bresciana e lombarda anche lui, come tutti noi, “DC non pentito”.
Ciao caro Sandro e di lassù con Carlo e gli altri amici continua a ispirarci nel nostro impegno terreno, in attesa di incontrarci per discutere ancora delle ragioni degli ultimi.
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Il mio ricordo di Giulio Andreotti
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A un “DC non pentito” come me, di Giulio Andreotti vorrei evidenziare una delle caratteristiche più attrattive della sua personalità: la straordinaria disponibilità all’ascolto e a insegnare a noi più giovani esponenti della quarta generazione democristiana, i passaggi più difficili della vicenda politica, così come la discutevamo con grande passione e assoluta libertà nei Consigli nazionali della DC a Piazzale Sturzo all’EUR.
Erano incontri nei quali Andreotti sempre in prima fila, prendeva i suoi immancabili appunti sul quaderno con la copertina nera, e dopo lunghe ore di dibattito, mentre risaliva i gradini della sala del consiglio nazionale, quella in cui spiccava al centro del palco il quadro di De Gasperi rappresentato da Annigoni (a proposito mi sono sempre chiesto che fine abbia fatto quel cimelio storico, dopo che, scomparsa la DC, ebbi la sventura di rivisitare Palazzo Sturzo nel completo abbandono, in uno dei primi consigli nazionale del CDU di Buttiglione) si fermava con grande generosità a dialogare con noi più giovani che gli ponevamo tante domande, ricevendo le sue come sempre argute e illuminanti risposte.
Da componente del CN della DC nella lista di Forze Nuove, fu assai travagliato il nostro rapporto con il capo di una corrente veramente mai gestita in prima persona dal divo Giulio, semmai sempre affidata ai luogotenenti fidati, Evangelisti, Sbardella, Lima prima e poi Cirino Pomicino e Nino Cristofori, con il seguito sempre garantito dei ciellini osannanti alle performance politiche del loro presidente di riferimento.
Un giudizio complessivo sulla sua lunga storia sarà fornito dagli storici futuri e, credo, non potrà che essere alla fine largamente positivo. Confrontando gli uomini di quella generazione, Andreotti, Fanfani, Moro, la seconda del partito, dopo quella dei popolari come De Gasperi, Gonella, Scelba, con questi “mezzomini e ominicchi” contemporanei, ogni paragone sarebbe fuorviante.
Resta, ovviamente, tuttora valido e difficilmente controvertibile quanto un leader storico della DC come Carlo Donat-Cattin amava, in ogni occasione, ammonirci; ossia che bisognava rispettare, ed anche temere, l’intelligenza politica di Giulio Andreotti, ma che bisognava sempre diffidare dell’andreottismo.
Per riuscire a capire a fondo cosa ha rappresentato l’andreottismo nella storia della DC e della Prima Repubblica al di là delle facili giustificazioni degli amici o delle sommarie liquidazioni degli avversari di parte serve una ben più rigorosa analisi dei documenti lasciatici in eredità con il distacco proprio di chi non è più parte attiva della contesa politica contingente.
Con lo scomparso e compianto amico Sandro Fontana condividiamo quanto da lui scritto in occasione del 90° compleanno di Andreotti: “Col passare degli anni e di fronte allo spettacolo deprimente della lotta politica odierna, il cosiddetto andreottismo ha finito col rappresentare ai miei occhi soprattutto una grande lezione di metodo. La quale non consisteva tanto nel banalizzare ogni vicenda politica, quanto nel riuscire ad isolare ogni problema concreto dalle inevitabili sovrastrutture ideologiche e passionali e nel cercare, con pazienza e determinazione, di sciogliere i numerosi nodi che l’insipienza e la malafede degli uomini avevano reso inestricabili”.
Da parte mia a una domanda rivoltami dal giornalista Giuliano Ramazzina in un libro intervista (“ALEF un futuro da Liberi e Forti”- ME Publisher) così formulata: “State sempre in maggioranza, diceva Toni Bisaglia durante le sue famose cene con gli amici. Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Giulio Andreotti. E’ più emblematica, nel disprezzo delle minoranze, la frase di Toni Bisaglia o quella di Giulio Andreott ?” risposi così:
“Quella di Toni è l’espressione di un doroteismo che, già con lui e, soprattutto dopo di lui, diventerà degenerazione culturale e morale. Ricordo uno degli ultimi interventi pubblici di Bisaglia in cui, con grande capacità di autocritica, denunciò l’esistenza di una questione morale tra le file dei suoi e di altri amici della DC che sarebbe stata all’origine della scomparsa di quel partito. Eravamo agli inizi degli anni ’80, dopo una tornata elettorale in cui era scoppiato il fenomeno da noi non compreso della Liga Veneta. Interi paesi e quartieri in cui eravamo abituati a conoscere pressoché la totalità degli elettori della DC, vedevano crescere il consenso al movimento dei Tramarin prima e dei Rocchetta dopo, senza che si potessero riconoscere i loro riferimenti territoriali. Fu allora che organizzammo un gruppo di lavoro multidisciplinare per cercare di comprendere le ragioni di quanto stava accadendo. E proprio discutendo dei risultati di quell’indagine, nella sala delle Conchiglie a Villa Contarini di Piazzola sul Brenta, Bisaglia con toni accorati pronunciò quella sua profetica sentenza. Era oramai troppo tardi. Molti dei suoi amici ed anche altri si erano da tempo incamminati sulla strada della separazione degli interessi, specie di quelli personali, dai valori. E fu così che il doroteo polesano che si fregiava del fatto che, a differenza di Mariano Rumor, il leader storico dei dorotei veneti, non aveva avuto parte alla congiura dei “salmodianti della Domus Mariae” e che a noi giovani in diversi incontri alla DC di Rovigo, teorizzava il valore della conquista del potere quale strumento indispensabile per orientare la politica verso quella mediazione corretta tra interessi e valori, dopo quasi trent’anni di vita parlamentare,dovette accorgersi che qualcosa di grave era intervenuto. Qualcosa che avrebbe travolto di lì a pochi anni con la DC veneta un’intera classe dirigente. Andreotti non è mai stato doroteo, avendo sempre curato una sua piccola, almeno all’inizio, corrente, chiamata con il nome rassicurante di “Primavera”. Circoscritta dapprima a Roma e nel Lazio, dopo la crisi dei dorotei che si consumò nella rottura intervenuta tra Rumor e Bisaglia in un drammatico consiglio nazionale, al quale partecipai, dopo la sconfitta sul referendum sul divorzio, la corrente andò progressivamente allargandosi. Franco Evangelisti ne era il Tigellino fedele ed efficientissimo. Evangelisti era quello del: “a Fra’ che te serve”, rivolgendosi a Francesco Caltagirone, allora disistimato palazzinaro romano, a capo di una dinastia oggi tra le più rispettabili dell’Italia, a destra, come al centro e a sinistra. Ma sarà con l’adesione degli Sbardella, dei Pomicino, Scotti e dei siciliani con Salvo Lima, che la corrente del divo Giulio diventerà uno dei capisaldi della DC post dorotea nella quale prevalse il dominio dei basisti demitiani, grazie proprio all’appoggio determinante degli andreottiani. Se prima i dorotei, specie quelli veneti, avevano dimostrato senso della misura e della loro innata capacità di stare a tavola, con Andreotti, si ebbe la dimostrazione dell’immutabilità della condizione del potere. Sino alla sciagurata decisione di opporsi all’ultimo voto all’elezione di Arnaldo Forlani alla presidenza della Repubblica, ultimo atto di una tragedia che, con Scalfaro presidente, assumerà i toni della tragicommedia”.
Luci ed ombre nella vita politica di un uomo che, in ogni caso, concorse in maniera determinante a garantire all’Italia quasi cinquant’anni di pace ininterrotta nella difesa della libertà e in una fase di ricostruzione dell’unità europea che, non a caso, Andreotti ebbe da subito, incompreso anche fra molti di noi più giovani, la consapevolezza dei rischi che correvamo con la riunificazione tedesca. Non a caso egli osava affermare con la consueta ironia : “ amo talmente la Germania da desiderarne due”.
Purtroppo l’idea di europeizzare la Germania attraverso l’Atto Unico (1987) che fu il capolavoro politico di Andreotti da ministro degli Esteri del governo Craxi durante il semestre di presidenza italiana di quell’anno, non si è attuata e ci troviamo oggi, invece, a fare i conti con una germanizzazione dell’Europa che rappresenta il grande tema affidato, ahimé, a questi nuovi politici senz’arte né parte. Non a caso sale da molti la nostalgia del divo Giulio…
Ettore Bonalberti
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In ricordo di Franco Fausti
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Ricordo il tuo sguardo serio e malinconico che si accompagnava a momenti di irrefrenabile euforia.
Ricordo la tua inimitabile parlata romanesca con quel tono baritonale e severo di un uomo tutto d’un pezzo. Ricordo la tua fede incontrallabile per i valori cristiano sociali che hanno caratterizzato tutta la tua vita.
L a prima volta che ci siamo conosciuti fu quando portasti il tuo gruppo romano a condividere con tutti noi la straordinaria esperienza forzanovista a fianco di Carlo Donat Cattin.
Come lui e come molti di noi non fosti mai “ un ragazzo del coro”, ma un uomo coraggioso e tenace nella difesa dei suoi coinvincimenti e sempre pronto a difendere i suoi amici per i quali non mancò mai la tua riconosciuta generosità, merce rara in politica…..
Ricordo le lunghe notti dei congressi romani, le nostre tavolate a Piazza Sant’Ignazio con i ristoratori amici; le discussioni sul presente caldissimo di quei giorni in cui si decidevano , con la guida della DC , le stesse sorti del nostro Paese e quell’ansia di prevedere un futuro che, già allora, negli ultimi anni, appariva a noi assai incerto ed oscuro.
Sei stato il simbolo dei democristiani romani che non si arrendevano al potente di turno. Sempre pronto a combattere la nostra giusta battaglia, tu, come noi, coerente e fiero nella vittoria, assai rara, come nelle più frequenti sconfitte.
E ti ricordo quando, al culmine della tua onesta e faticosa carriera, fosti per tutti noi l’amico sottosegretario agli Interni, cui potevamo rivolgerci in ogni momento, certi di trovare il compagno umile e sincero di sempre.
Caro Franco non ti ho visto poi per tanto tempo. Quello della nostalgia di noi che fummo partecipi della stagione dei gattopardi e che, nella nuova, vedemmo avanzare le tristi terze e quarte file di coloro che vissero per molto tempo senza infamia e senza lode….
Ho saputo della malattia che ti ha tolto una delle cose più preziose che il Signore ti aveva donato. Ora so che sei in cielo e con Carlo continuerai a discutere con lui, a sorridere forse di noi, increduli di un tempo che non sembra più riconoscere i valori che hanno contrassegnato la nostra ormai lunga vicenda politica ed umana.
Serberò vivo il ricordo di un amico cui ho voluto bene e che ha testimoniato nella sua vita il valore di quel disincanto che lo ha reso, come molti di noi un “ idealista senza illusioni…”
Ettore Bonalberti
Venezia, 14 Novembre 2006
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Adriano Biasutti ci ha lasciati
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Adriano Biasutti non è più con noi. Un male incurabile lo ha stroncato e con lui abbiamo perduto un amico di tante battaglie.
E’ morto un galantuomo, un “DC non pentito” e un figlio generoso dell’amato Friuli.
Lo ricordiamo giovanissimo su quei treni di terza classe che, lui da Udine e io da Ferrara, a metà degli anni’60 ci portavano in giro per l’Italia, alle riunioni del consiglio nazionale dei giovani DC, agli incontri politici organizzati sul territorio da quella straordinaria delegazione nazionale di Gilberto Bonalumi.
Siamo stati accomunati dalla stessa fede e appartenenza alla nobile tradizione della sinistra sociale di Vincenzo Gagliardi, Carlo Donat Cattin e di Mario Toros nei momenti più forti di quell’esperienza.
Da soli, con pochi altri, mantenemmo viva la fiaccola di Forze Nuove nel Veneto e nel Friuli V.Giulia, anche dopo il primo infarto che colpì il nostro leader, anche se, conquistata la segreteria della DC da Ciriaco De Mita, dopo la berve stagione del “preambolo”, Adriano passò tra “i colonnelli “ del leader di Nusco.
Sebbene fossero al calor bianco gli scontri tra le due anime della sinistra della DC, mai venne meno l’amicizia fraterna con Adriano: troppe erano state le cose belle che ci avevano visti insieme lottare per una DC più aperta, partecipata, meglio legata agli interessi e ai valori delle nostre realtà regionali.
Troppo grande la mia stima per l’assessore esemplare della ricostruzione dopo il devastante terremoto friuliano e per la guida autorevole che seppe imprimere al governo regionale del Friuli V.Giulia.
In questi quindici anni di letargo dalla politica non mancarono i momenti in cui potemmo rincontrarci per discutere del nuovo impegno dei popolari degasperiani nel tempo del bipolarismo non ancora stabilizzato.
Ora siamo privati della sua intelligenza e del suo innato equilibrio che si accompagnava ad un dolce sorriso sempre smorzato da un velo di mestizia.
Agli amici friulani che l’anno conosciuto e stimato e a tutti coloro che gli hanno voluto bene, esprimo i sentimenti di partecipazione al loro dolore di tutti gli amici dei circoli di “ Insieme” del Veneto e miei personali, con l’impegno di continuare a testimoniare gli ideali e i valori condivisi in oltre quarant’anni di comune militanza politica.
Ettore Bonalberti- 1 Febbraio 2010
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