Nel corso degli anni 2004-2005 per la rivista il Governo delle cose, Ettore Bonalberti ha pubblicato una serie di articoli sugli anni di piombo che sono stati ripresi anche dal sito curato da Tommaso Fera:
www.brigate.rosse.it
Ecco le quattro note che costituiscono una ricostruzione degli avvenimenti (a cura di Bonalberti) degli inizi anni'80 per conto della DC veneta, dopo i tragici fatti di violenze e di sangue ad opera dell'estremismo di sinistra in quel di Padova e Mestre e aggiornata negli anni successivi, sino ai casi drammatici di D'Antona e di Biagi.
Gli anni di piombo: trent’anni dopo
Sollecitato da Gianni Conti che “ in una stagione di mediocrita’politica” , mi ha invitato “a ripensare e soprattutto riproporre alcuni eventi che ci hanno segnato profondamente” ho tentato, a distanza di quasi 24 anni, una rilettura critica di quanto scrissi, su incarico della DC veneta, sul fenomeno del terrorismo e degli anni di piombo in Italia.
E ‘ un tema che si ripropone con gli attuali processi contro Nadia Desdemona Lioce e compagni delle nuove BR per l’assassinio del sovrintendente di polizia Emanuele Petri e in cui perse la vita anche il brigatista Mario Galesi sul treno Roma-Firenze (2 Marzo 2003) e quelli sugli omicidi di D’Antona e Marco Biagi . Tema ripreso da un film, come “ La meglio gioventu” di M.T.Giordana o da un libro, come “ La peggio gioventu ” di Valerio Morucci, e, soprattutto, dal dibattito avviato su giornali e riviste ( da L’Avvenire a il Foglio, da Il Giornale a il Corriere della Sera) sulla questione relativa al come uscire dal dibattito sugli anni di piombo, sul come chiudere l’eta’del terrorismo: amnistia o modello Sudafrica per la riconciliazione?
Si tratta di una discussione che per noi, oramai sessantenni, riguarda vicende note e vissute piu’ o meno intensamente da una parte o dall’altra, a partire dagli anni’60, ma che per molti dei giovani di oggi risultano lontane anni luce dalla loro esperienza e che, proprio per questo, meritano di essere rivisitate con spirito critico.
Data l’ampiezza dei temi e dei fatti accaduti lo faremo con una serie di articoli successivi con la speranza di aprire anche tra i lettori de “ Il Governo” un fecondo dibattito.
Solo alla fine di una narrazione descrittiva di quelle vicende, senza la velleita’ di compiere una ricostruzione storica organica e completa di esse, ma semplicemente ripartendo dalle analisi che in tempo reale svolgemmo in quegli anni, da semplice militante di un partito, la Democrazia Cristiana, che piu’ di altri pago’ in termini di attentati e di morti per mano delle BR e del terrorismo politico, cercheremo di dare risposta alle domande che si pongono oggi all’attenzione dell’opinione pubblica e, piu’ in particolare, alla classe politica dirigente attuale del nostro Paese.
Una prima domanda cui dare risposta trent’anni dopo quelle vicende, e’ se esistano ancora nella realta’ italiana rischi concreti che la violenza terroristica possa minacciare la tenuta democratica del Paese, alla luce dei recenti attentati del gruppo delle nuove BR guidate dalla Lioce e compagni e che, di tanto in tanto, si ripetono in episodi se non drammatic amente tragici come gli omicidi D’Antona e Biagi, con lo scoppio di bombe e dichiarazioni di lotta contro lo Stato da parte di sedicenti nuove BR o formazioni anarco-insurrezionaliste ?
Un’altra domanda e’ quella che ha interessato la pubblicistica giornalistica e televisiva degli ultimi mesi; ossia, come si intende uscire dagli anni di piombo? Come si vuole risolvere la questione dei rapporti con coloro che furono protagonisti attivi di quegli efferati delitti: grazia o leggi speciali? Amnistia come nel 1946 oppure una “Commissione” come in Sudafrica del dopo apartheid?
Domande che, soprattutto per i piu’ giovani, richiedono una ricostruzione dei fatti e misfatti di quegli anni, perche’ non si perda la memoria di cio’ che e’ stato e dei rischi cui si va incontro in assenza di adeguate proposte e risposte politico culturali.
Il terrorismo italiano: bilancio dopo un trentennio
La mia esperienza universitaria nella facolta’ di Sociologia dell'Università di Trento negli anni 1965/70 ha coinciso con quella di una generazione passata dall' illusione dell'”immaginazione al potere” all' integrazione nel sistema più o meno positiva per molti; alla dissociazione, contestazione violenta o passiva per altri; alla lotta armata, purtroppo, per alcuni. Ed è anche per capire come una generazione (la prima nata nella repubblica democratica) abbia potuto far nascere uno dei fenomeni più inquietanti della nostra storia nazionale, che mi sono impegnato in questa ricostruzione storico-politica.
E’ questo infatti, e nient'altro che questo il livello, certamente non esaustivo, che, con questi articoli successivi, ritengo dobbiamo considerare; ferma la necessità di un approccio più articolato ed interdisciplinare ad un livello scientifico assai più rigoroso per un'analisi più corretta del terrorismo italiano negli anni di piombo.
Credo che nell'analizzare il fenomeno terroristico siano possibili due atteggiamenti: parlarne come un fenomeno “estraneo” alla società italiana (come un'escrescenza patologica sorta improvvisamente senza sapere da dove viene e verso dove si orienta); oppure, come cerchero’ di fare, tentare di stabilire una più stretta e logica connessione tra crisi politica-economica, sociale e, quindi, culturale che ha investito l'Italia in quegli anni e l'esordio di movimenti clandestini di opposte tendenze che dal 1969 hanno insanguinato il Paese compiendo violenze, attentati, assassinii, stragi.
L'esperienza di centro-sinistra
Il periodo da analizzare ai fini dello studio sulla crisi di quegli anni è iniziato con la rottura dell'equilibrio centrista (dalla prima alla seconda fase, secondo l' interpretazione morotea) ed il fallimento dell'avventura di Tambroni. Estate 1960: un tentativo, quello di Tambroni, che sottovaluta sia la grande forza del movimento operaio italiano che la matrice anti-fascista della Repubblica. A Tambroni successe il centro-sinistra in un modo che ricordava, per certi aspetti, gli avvenimenti del 1900-1901.
Scrive al riguardo Giampiero Carocci (“Storia d'Italia dall'unità ad oggi”): “come nel 1901 il Gabinetto Zanardelli-Giolitti era nato in seguito allo sciopero generale di Genova, così il centro-sinistra nasce in seguito alle manifestazioni, anche violente, del popolo genovese contro il M.S.I.. E, come nel 1901, le manifestazioni popolari furono decisive, perché s'incontrarono con una tendenza nel Parlamento favorevole ad aprire un nuovo corso politico orientato a sinistra”.
Questa apertura a sinistra si era potuta verificare anche a seguito di un intenso processo di revisione e di dibattito politico-culturale tra le forze di sinistra impegnate, tra l'altro a fare i conti con l'eredità marxista e con i problemi nuovi posti in Italia e nel mondo dal declino dello stalinismo. Questo richiamo di Carocci tra la situazione del 1901 e quella del 1960 sottolinea un problema costante nella storia d'Italia e cioè il tema che si ripropone ad ogni svolta politica che è e resta quello dell'allargamento della partecipazione delle classi sociali (ed in particolare del proletariato) alla gestione della cosa pubblica.
Inoltre sottolinea il ruolo decisivo che, sempre nel nostro paese, hanno svolto le pressioni “extraparlamentari” ed in qualche modo fuori della legalità, per determinare (nei due casi del 1901 e del 1960) le svolte e vincere le resistenze della classe dirigente. Certo non è possibile un parallelismo automatico e deterministico tanto diverse sono le situazioni sociali, economiche e politiche tra i due periodi; tuttavia comune resta alla strategia del giolittismo come a quella della DC nella fase del centro-sinistra il tentativo storicamente essenziale di integrazione di strati sociali e masse più vaste nella gestione del Paese (“allargamento dell'area democratica”) ed il ripiegamento precoce su una pratica che, in mancanza di riforme incisive, punta sull'assistenza, il clientelismo, il sottogoverno e l'incoraggiamento dei vari corporativismi.
Comune è, peraltro, in entrambi i momenti, pur così lontani e diversi tra loro, l'atteggiamento della sinistra all'opposizione: essa non è capace né di avanzare una proposta alternativa di programma né di collaborare criticamente, con stimoli costanti, all'attuazione dei provvedimenti più qualificanti preannunciati. Il fallimento riformatore del centro-sinistra si coglie già in modo non equivoco nel biennio 1963/64 (crisi congiunturale e politica dei due tempi), basta che consideriamo il mutamento economico sociale che è stato alla base di quell'esperimento. Scrive G. Ruffolo (“Dal 1968 ad oggi: come siamo e come eravamo”): “lo sviluppo accelerato tra il 1951 e il 1962 (6% di crescita annua del reddito nazionale) ha consentito una trasformazione e modernizzazione della struttura economica italiana di dimensioni assolutamente senza precedenti. Ha anche provocato la più grande rivoluzione sociale italiana degli ultimi secoli: il crollo del blocco agrario, la dissoluzione del mondo e della civiltà contadina, la migrazione di massa di milioni di contadini del Sud verso l'estero e verso le grandi città italiane del centro-nord ma anche del sud; l'emergere di una nuova formazione sociale di ceti medi urbani”.
Ebbene ad una tale “rivoluzione” economica e sociale non solo non ha corrisposto una “rivoluzione” politica, ma nemmeno una risposta della classe dirigente ed in generale dei partiti politici tale da attenuare il divario crescente tra società politica e società civile.
Occorreva, ma non ci fu, una risposta fatta di alcune incisive riforme di struttura in una situazione caratterizzata da un balzo in avanti a livello economico e sociale, ma anche di più da debolezze e squilibri di fondo del sistema economico e da fenomeni sociali come l'urbanizzazione e la progressiva scolarizzazione destinati ad innestare una grave crisi di valori e di modelli nel tessuto di tutta la società nazionale (in realtà non mutò nemmeno nei volti la classe dirigente al potere). E’ dunque questo il quadro (grande mutamento socio-economico, scarso mutamento politico - e ininfluente incidenza della politica riformatrice - stallo tra le forze politiche) entro cui esplode il 1968.
Il '68 come rottura
Il centro-sinistra seppure non realizzò grandi trasformazioni sul piano riformatore concreto (la rendita restò intoccata) tuttavia ottenne alcuni risultati importanti sul piano previdenziale, sanitario, scolastico, in quello della legislazione del lavoro. Tali risultati, però, essendo scollegati tra di loro, senza un disegno strategico che ne garantisse coerenza, finirono per aprire sì alla società civile nuovi spazi di crescita e di partecipazione, ma anche per esercitare effetti destabilizzati sugli equilibri esistenti senza predisporre equilibri nuovi e diversi. Fu così che il movimento giovanile di protesta che nei primi anni '60 parte dai campus americani investiti anche dal dramma indocinese e che si espande con estrema rapidità in tutta l'Europa occidentale trova in Italia una situazione politica e sociale, ma anche e soprattutto culturale, del tutto favorevole. A livello internazionale è questo il momento magico e mitico della rivoluzione guerrigliera di Ernesto Che Guevara, morto in un conflitto a fuoco l'8 ottobre 1967 in Bolivia. Pochi mesi prima della sua morte, nel suo messaggio alla Tricontinentale, letto all'Avana, egli scriveva: “tutta la nostra azione è un grido di guerra contro l'imperialismo ed un appello contro l'unità dei popoli, contro il grande nemico del genere umano: gli USA.
In qualsiasi luogo ci sorprende la morte sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga ad un orecchio sensibile, un'altra mano si tenda. per impugnare le nostre armi, e altri uomini si apprestino a intonare il canto funebre con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria”. La notte stessa della sua morte i muri di molte città italiane si riempiono di scritte e di manifesti: “il Che vive”. Egli vive nella lotta degli sfruttati e dei giovani di tutto il mondo. E’ già un mito (a Trento, all'inaugurazione dell'Anno Accademico 1967, Mauro Rostagno celebra il cinquantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre; credo di essere stato, unico DC dichiarato e riconosciuto, tra i pochi in borghese, quasi tutti vestivano alla Guevara).
E’ questa anche l'epoca dell'offensiva del Tet e dei grandi rovesci americani nel Vietnam (conquista Vietcong di Hué, antica capitale imperiale, ed occupazione da parte di un commando dell'ambasciata USA di Saigon). E’ la sconfitta della tecnologia occidentale contro la “purezza primitiva rivoluzionaria” Vietcong; nasce il mito vietnamita e di Ho-Chi-Minh.
Negli Stati Uniti il movimento di resistenza alla guerra nel Vietnam, gia iniziato nel ‘64 “We won't go” (non vogliamo partire) da tempo ha dato vita a sit-in ed occupazioni nelle università, fino a creare il “sindacato dei soldati” (american servicemen union) ed il movimento di rifiuto della leva. Grandi manifestazioni contro la “sporca guerra” avvengono nei campus (essere bocciati all'università significa perdere l’esenzione e partire per la guerra) a New York, fino alla grande marcia a Washington dei 100.000.
Crisi nel governo Johnson (dimissioni di Mac Namara nell'ottobre '67), rivolta nera di aprile. Assassinio di Luther King. Nascita del Black Power. L'insieme multiforme di questi fronti di lotta confluisce in quel grande fenomeno sociale, culturale e politico che è il “movement” americano. (Beat generation - prima metà anni '60 - hippies seconda metà, cultura della diversità underground).
Tutto ciò darà forza alla nuova sinistra americana di cui la “Monthley Review” diffonderà in tutto il mondo, ed anche in Italia, informazioni continue sulle proprie iniziative. La lotta contro l'università esplode negli USA alla fine del giugno del '68 alla Columbia University di New York. “Dobbiamo smettere di chiedere scusa di essere studenti” scriveva un esponente del movement americano; “gli studenti sono addestrati per essere la nuova classe lavoratrice e le università come officine sono le istituzioni che li preparano per gli ingranaggi della macchina burocratica del capitalismo delle grandi società. Gli studenti sono un gruppo-chiave nella creazione di forze produttive di questo capitalismo supertecnologico. Nessun individuo, nessuna classe è genuinamente impegnata in un movimento rivoluzionario finché la propria lotta non è una lotta per la liberazione”.
Alla lotta studentesca alla Columbia University si riunificano i vari filoni del movement: lotta contro la guerra ed il militarismo, lotta antirazzistica, rifiuto anti imperialistico, lotta anti accademica.
La rivoluzione culturale cinese
Sull'altro fronte, ad oriente, nella seconda metà del 1967, esplode e raggiunge il suo culmine la rivoluzione culturale cinese. Dopo la prima fase (10 novembre 1965 - maggio ‘66) in cui la rivoluzione culturale ha un carattere eminentemente di battaglia culturale (l'arte e la letteratura ufficiali sono i bersagli principali da colpire attraverso una radicalità sino ad allora sconosciuta) tra la primavera e l'autunno '66 la rivoluzione culturale si trasforma in movimento di massa di studenti ed insegnanti dentro l'università. La critica all'ideologia “revisionistica” è soprattutto rivolta contro alcuni centri di potere (cultura e strutture accademiche): “che il movimento si sviluppi prima tra gli intellettuali e la gioventù studentesca, dirà Mao, è una legge della Rivoluzione”. Successivamente essa dilagherà in tutti i campi della produzione e della stessa organizzazione sociale e politica della Cina (seguono epurazioni e violenze a tutti i livelli sino alla scesa in campo dell'esercito). La rivoluzione culturale cinese è un intreccio indissolubile tra una lotta di massa per il potere e un “processo di trasformazione degli individui” nella quotidianità della loro esistenza e cultura. E’ un processo ad ondate progressive di flusso e riflusso che porta ad investire, come autentica lotta politica, le basi stesse del potere statuale. Il suo carattere incompiuto evoluto e teorizzato dallo stesso Mao. E’ la teoria delle due vie in cui si stempera la lotta tra capitalismo e socialismo.
E’ questo carattere anti dogmatico, libertario, innovativo che costituirà il fascino della concezione maoista, contrapposta al revisionismo burocratizzato ed imperialistico dell'URSS.
Il Maggio francese e gli altri movimenti in Europa
Più vicino al nostro Paese, in Europa, a metà degli anni '60, parte quel movimento degli studenti che con il '68 dilagherà in tutto il mondo. Dal manifesto di Strasburgo (nella miseria dell'ambiente studentesco considerato nei suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e specialmente intellettuale e di alcuni mezzi per porvi rimedio) al Maggio Francese del '68. Movimento del 22 marzo '68 (attacco alla riforma di Piano del Ministro Fouchet - progetto tecnocratico di ristrutturazione dell'istruzione superiore). Occupazione del rettorato di Nanterre - barricate e chiusura dell'Università il 2 maggio - lunga marcia di 25 chilometri di 50.000 studenti il 7 maggio dal quartiere latino ai Campi Elisi col compito di coinvolgere tutta la popolazione (“Vous etes tous concernés” - vi riguarda tutti). Il movimento dilaga e si incontra con la classe operaia che col 14 maggio dà vita al più grande sciopero di tutta la storia (dal 14 al 27 maggio). Seguirà il recupero gollista. All'est è sempre del 1968 l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e la fine dell'esperimento della “primavera di Praga” di Dubcek; mentre la contestazione giovanile studentesca ed operaia dilaga a Varsavia (movimento degli studenti 8 marzo '68 e successiva rivolta operaia di Danzica del dicembre '70). A Tokyo oltre 200 Colleges in lotta ed occupazione dell'Università di Nikon e di quella “imperiale”. A Rio de Janeiro ed in altre capitali dell'America Latina (Città del Messico, Caracas, Buenos Aires, Montevideo, San Domingo, Bogotà). Anche in Europa occidentale (occupazione facoltà di scienze politiche ed economia a Madrid - Lisbona) con particolare intensità in Germania Ovest (attentato Dutschke 11 aprile '68), (assalto agli edifici di Springer e marcia stellare, cioè convergenza su Bonn da diverse direzioni) l'11 maggio.
Il ’68 italiano
Ed è in questo contesto di smarrimento liberatorio, generazionale, studentesco ed operaio mondiale che si inserisce il '68 italiano. Ho detto del centro-sinistra che, agli inizi del '68 è, di fatto, ormai in crisi e paralizzato sul piano decisionale. All'opposizione c'è un Partito Comunista incapace di scegliere sino in fondo la strada riformistica della socialdemocratizzazione per una rituale adesione al modello ed alla strategia rivoluzionaria di tipo leninista, di fatto, abbandonati da almeno 30 anni. Il Paese è caratterizzato da una costituzione tra le più avanzate in Europa, ma anche largamente inattuata per alcune rilevanti parti.
Il permanere di zone di sottosviluppo accanto ad una delle più straordinarie e tumultuose trasformazioni economico-sociali e, quindi, culturali del paese; leggi antiquate d'origine fascista da un lato, un clima di grande tolleranza civile e democratica dall'altro, è questa la condizione entro cui esplode la contestazione giovanile studentesca.
Vi è un terreno di incubazione in quella che Guido Viale (“Il sessantotto”) chiama il “movimento di strada” presente a Milano ed in alcune città del nord (cultura alternativa o underground - fumo - sostanze psichedeliche - sovversione del linguaggio - nuove forme di espressioni attraverso la musica - nomadismo - rifiuto della famiglia e del lavoro - generica ribellione contro il “sistema” e le sue istituzioni - pacifismo - ricerca di un modo diverso di vivere e di stare insieme senza ruoli). Vi è, come motivo contingente, la Riforma Gui (la “deprecata” 2314, unico tentativo di approccio riformatore dell'istituzione universitaria), contro cui si scatenerà il dissenso studentesco (dalle “tesi della Sapienza” dell'università di Pisa, estensione alla condizione studentesca delle tesi dei gruppi operaisti raccolti attorno alle riviste “Quaderni rossi” e “Classe operaia” alle occupazioni delle università di Trento, della Cattolica, Torino, Genova, Napoli).
Alla base c'è il tema unificante della lotta antiautoritaria come strumento essenziale per far irrompere la vita quotidiana nella politica. In tutta la prima fase della contestazione studentesca universitaria l'egemonia è della sinistra studentesca un gruppo nato nel 1967 dalla scissione dell'UGI. La sua ideologia è “Emme-Elle” (cioé marx-leninista): complessa analisi antimperialistica e sulla situazione internazionale (antesignana di quella che di lì a poco ritroveremo in tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria) riferimento costante alla Cina ed alla rivoluzione culturale (il “Mao Tse Tung pensiero”) continue citazioni del libretto rosso di Mao. Questo costante riferimento al pensiero maoista vale come critica pratica e permanente al revisionismo ed al “socialismo realizzato”. All'origine dell'ideologia “Emme-Elle” vi è la nascita nel 1966 del P.C.d'I., Partito Comunista d'Italia (marxista-leninista).
Comune a tutto questo pensiero resta la rivendicazione della continuità con un passato più o meno lontano del movimento operaio: la resistenza, lo stalinismo, la rivoluzione d'ottobre, l'internazionalismo proletario. Verso la fine di dicembre del 1967 il movimento dilaga forte della sua parola d'ordine contro “la scuola di classe”, contro la repressione, per “il salario generalizzato”, per la formazione dei “Consigli”. Il primo marzo 1968 Valle Giulia, che sarà il più grosso scontro di piazza dai tempi di Piazza Statuto a Torino (1962).
Non si usano armi da fuoco né da una parte né dall'altra ma il pestaggio è durissimo. Da quella esperienza nascono i primi servizi d'ordine studenteschi (a Milano i famosi Katanga di Capanna: “prendi la spranga e diventa Katanga”). A Valle Giulia il movimento studentesco riceve e riconferma una nuova “legalità”: quella del ricorso alla violenza contro lo Stato. La violenza rivoluzionaria viene incontro al movimento attraverso la figura mitica del Che Guevara, che, “vive” nella ribellione di tutta una generazione; dall'appello internazionalista del popolo Vietnamita (“il Vietnam vince perché spara”); alla rivolta dei ghetti negri americani; dalla tradizione popolare e comunista della lotta partigiana e dei primi anni della repubblica, cui si vuole ricollegare idealmente. Prende corpo la tesi secondo cui il potere è coartazione, arbitrio, violenza che, quando proviene dall'alto, dal vertice della piramide sociale è sempre “ingiusto”.
Pertanto la violenza che viene dal basso è sempre “giusta»” e “legittima”. (“Ribellarsi è giusto” è il motto maoista della rivoluzione culturale cinese). Una delle canzoni più diffuse del '68 è intitolata “la violenza” e dice: “è cominciata di nuovo la caccia alle streghe - padroni, governo, la stampa, la televisione. In ogni scontento si vede uno sporco cinese - uniamoci tutti a difendere l'istituzione. Oggi ho visto nel corteo - tante facce sorridenti - le ragazze a 15 anni - gli operai con gli studenti. Quando poi le camionette - hanno fatto i caroselli - i compagni hanno impugnato i bastoni dei cartelli. Ed ho visto le autoblindo - rovesciate e poi bruciate - tanti e tanti baschi neri - con le teste fracassate. La violenza, la violenza, la violenza e la rivolta - chi non c'era quella volta - non sarà con noi domani”.
E certo lo Stato si ritrova impreparato di fronte a questa vicenda dai tratti assolutamente nuovi, impreparato ad affrontare un sommovimento che sembra rompere gli argini del vecchio ordine sociale (anche da ciò nasce il disorientamento e, forse, la deviazione del Sid e la strategia della tensione che di lì a poco insanguinerà tragicamente il paese). Alla fine della stagione 1967-68 la lotta studentesca ha coinvolto alcune centinaia di migliaia di studenti, che diventeranno milioni quando nel 1969 la lotta si allargherà alle scuole medie superiori. E’ dentro questa massa che si forma una prima generazione di rivoluzionari.
Scrive ancora G. Viale “Il sessantotto”: “una leva di compagni che hanno preso il gusto della lotta e che mettono ormai il loro impegno politico davanti a tutto. Per molti la decisione di diventare innanzitutto un rivoluzionario, un «militante», è una scelta obbligata: non si può più accettare le regole del mondo che ci si è lasciati dietro alle spalle, ma non esiste ancora in Italia una «seconda società», un mondo di emarginati dove si possa vivere sotto altre regole o nella sregolatezza”. Veramente possiamo parlare del sessantotto come rottura che nasce dall'intreccio tra crisi delle istituzioni del vecchio modello di sviluppo e la rivolta di una generazione contro chi e ciò che ne rappresenta la continuità.
Tesi di Barbiana e scuola di Francoforte (Marx-Mao-Marcuse) internazionale situazionista e tesi terzomondiste - scontro tra linea rossa e nera della rivoluzione culturale cinese - Black Power americano - SDS americana (studenti per una società democratica) e SDS tedesca (lega degli studenti socialisti) sono questi alcuni dei filoni ideologici e culturali entro cui si forma la “cultura del movimento” parte della quale, peraltro, deriva dalla prassi concreta quotidiana della multiforme esperienza politica.
Dall’autunno caldo al partito armato
Nell’articolo precedente (Il governo delle cose, n.33-Aprile 2005) si e’ cercato di ricostruire il quadro internazionale ed interno italiano entro il quale si forma l’humus politico culturale da cui scaturira’ il fenomeno delle Brigate Rosse.
Scelta la strada di una ricostruzione di quel fenomeno partendo dall’analisi della condizione storico-politica, economico-sociale e culturale dell’Italia nella seconda meta’ degli anni ’60, un elemento essenziale di valutazione e’ costituito da quel vasto ed articolato accadimento di natura economica, sociale, sindacale e politica passato oramai alla storia del nostro Paese sotto il nome di “autunno caldo”.
1969 - L'autunno caldo
Il '68, infatti, oltre alla rivolta studentesca nelle Universita’ è anche l'anno della svolta operaia e sindacale del nostro Paese. Dagli episodi del 19 aprile '67 a Valdagno, quelli di Porto Marghera del luglio '67 (primo sciopero per il rinnovo del premio di produzione dei 15.000 del petrolchimico) allo sciopero generale per le pensioni a Torino, nel marzo '68 è tutto un intrecciarsi di iniziative e di esperienze comuni di lotta tra operai e studenti (“operai e studenti uniti nella lotta”). Autoriduzione - egualitarismo battaglia meridionalistica - la conquista del potere in fabbrica - sono alcuni dei motivi fondamentali dell'azione sindacale di quei giorni.
La parola d'ordine è: “vogliamo tutto”. Accanto alle rivendicazioni fondamentali “aumento della paga, diminuzione delle ore, diminuzione della produzione, sette ore, lavorare di meno, guadagnare di più”, emergono anche i desideri repressi degli operai: “rompere il culo ai padroni, ma prima ad alcuni colleghi di lavoro; ammazzare i capi squadra uno alla volta; ammazzare i capi reparto, capi officina e tutti i ruffiani; mettere Agnelli al nostro posto; ammazzare chi ne ha colpa; lavorare il meno possibile; far lavorare i padroni”. (Da un'inchiesta di P.O. tra gli operai di Mirafiori a Torino nell'aprile del '69).
Il desiderio si fa programma come quando si sostiene: “organizzare squadre di linciaggio dei crumiri e dei dirigenti; lotta continua, cioè non dar tregua; scioperi, legnate, botte; lotte violente; far pressione anche con mezzi non leciti; abbattere la polizia, abbandonare la via democratica; dimostrare con i manganelli”. Le lotte di quei giorni furono anche questo e parte di questa seminagione ha dato poi purtroppo, tragicamente, i suoi frutti. E’ in questa vasta e multiforme esperienza politico-sindacale-studentesca ed operaia che nasce la figura del “militante rivoluzionario”.
La “centralità operaia” rinsalda e dà corpo alla militanza di provenienza Emme-Elle del movimento studentesco scolastico. Nasce, cioè, una militanza tra operai e non, che ha dietro di sé la forza di una condizione non instabile come quella studentesca, ma permanente, di una lotta, quindi, destinata a durare. Sono migliaia di operai e studenti che si ritrovano immersi in una straordinaria esperienza collettiva di lotta e di organizzazione.
Le origini del terrorismo
Su “Quaderni piacentini” del 1 luglio '69, Francesco Ciafaloni e Carlo Donolo analizzano la situazione in cui versa il movimento degli studenti in questi termini: “non c'è dubbio che la nascita del movimento studentesco del '67-68 ha modificato profondamente la situazione politica in Italia.
Più esattamente ha imposto la ridefinizione di molti problemi politici, ha posto con urgenza impreviste richieste di soluzioni di alcuni problemi sociali ed istituzionali, ha messo in crisi o almeno svelato senza alcuni equivoci la crisi latente di molte venerande istituzioni, anzi ha introdotto il problema generale della crisi istituzionale, politica, dei valori socio-culturali su cui si basa il sistema vigente come problema per la classe dominante e quella politica in particolare”. Tuttavia, continuano: “il movimento non ha provocato mutamenti nella struttura del potere, non ha conquistato potere reale (tanto meno istituzionale) in singole organizzazioni o strutture né, più in generale, ha modificato i rapporti di forza tra le classi sociali”, inoltre, “gli studenti hanno scambiato la situazione di caos e di crisi istituzionale, gli effetti superficiali della constatazione, per probabile il colpo di stato, l'equivalente negativo della rivoluzione”. Sarebbe questa, secondo i due autori, “la falsa coscienza del movimento studentesco”. E’ una considerazione puntuale che segnala lo stato reale del movimento che si caratterizza per una diaspora tra i gruppi contendentesi la leadership ideologica della “sinistra rivoluzionaria”.
Feltrinelli esce con l'opuscolo “Estate '69” con cui si annuncia un imminente “l’ intervento delle forze repressive” ed il “definitivo tramonto non solo del revisionismo, già condannato dalla storia, ma anche dell'ipotesi che si possa compiere una rivoluzione socialista senza la critica delle armi”. (Nascita dei GAP). I marxisti leninisti, che, come si è visto, si rifanno meccanicamente al pensiero maoista, si impegnano per l'organizzazione di un partito pronto per la rivoluzione, diffuso nelle città e nelle campagne, al nord, come al sud. L'impasse degli studenti libera progressivamente forze ed energie impazienti di agire e che vedono nell'esplosione della lotta operaia dell'autunno sindacale caldo del '69, la conferma di un possibile sbocco rivoluzionario.
E’ pure l'analisi che da almeno sei anni compie il filone operaista (che si ricollega alla prima esperienza degli anni sessanta di “Quaderni rossi” e “Classe operaia”) e che si riprende nel sessantanove come movimento di contestazione operaistico, accanto a quello marx-leninista. Con la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) si concretizza la strategia della tensione come risposta al sommovimento studentesco ed operaio di quel tempo. Con quell'episodio si dimostrano da un lato le incertezze di orientamento e di strategia della DC, così come dell'opposizione comunista incapace di incanalare le proteste in termini recepibili a livello politico-parlamentare. E’ da questa mancata canalizzazione e da questa reazione alla “disperazione da immobilismo” seguita a quella strage che per molti scattò la scelta della clandestinità e della lotta armata. E’ difficile poter affermare se il PCI era o poteva essere nelle condizioni di interpretare e guidare quel processo, diviso com'era, allora come ancor più tardi e per molti anni, tra una tradizione ancora tutta pervasa di miti rivoluzionari terzo-internazionalisti ed una prassi politico-amministrativa di tipo riformistico occidentale: d'altra parte alle spinte dal basso la stessa coalizione di forze al governo, se si eccettuano le risposte sul piano istituzionale (avvento delle regioni) e sul piano della legislazione del lavoro (statuto dei lavoratori), non oppose un riformismo moderno ed aggressivo, come fece il gollismo in Francia, ma una pratica moderata e trasformistica, assolutamente inadeguata.
Tre posizioni nel movimento
Contro tale resistenza moderata il movimento finì per dividersi su tre posizioni fondamentali così, riduttivamente, schematizzabili:
1) un primo prevalente nucleo, dalle esperienze del biennio '69-70, trarrà motivo per proseguire la propria battaglia entro le organizzazioni di sinistra extra PCI (manifesto - lotta continua - avanguardia operaia);
2) una seconda parte (collettivi operai, a cominciare da quelli storici di P.0.) concluse che i margini per una battaglia a livello anche extra-parlamentare fossero esauriti e che, quindi, la lotta andava condotta fuori delle istituzioni, sulla base della spontaneità inventiva delle masse operaie e marginali oppure (ecco la linea d'origine) all'organizzazione ferrea di avanguardie capaci di sostenere il peso ed i rischi di uno scontro frontale con l'apparato repressivo dello Stato;
3) infine, una terza parte, stanca, frustrata e delusa o si ritrasse nel “privato” ( Mauro Rostagno - Macondo) o rifluì nella sinistra storica (Paolo Sorbi ed altri, solo per citare i casi di alcuni colleghi di Sociologia di Trento).
Già una piccola minoranza tra il ‘69 e il ‘70 sceglie il terreno nella lotta armata come l'unico praticabile per perseguire gli obiettivi rivoluzionari che erano stati patrimonio di tutto il movimento; in analogia con quanto si andava verificando in Francia (la gauche proletarienne crea una propria organizzazione clandestina) ed in Germania (Tupamaros di Berlino ovest - movimento 2 giugno - Raf di Baader Meinhof). Nei primi gruppi che scelgono la clandestinità ed il terrorismo (prima generazione brigatista) troviamo il collettivo politico metropolitano di Renato Curcio, il gruppo dell'appartamento di Reggio Emilia di Franceschini, Ognibene e Gallinari.
Nell'opera “Mai più senza fucili”Alessandro Sily evidenzia gli elementi comuni a questa prima generazione brigatista: “un giudizio categoricamente negativo sulle condizioni politiche, economiche e sociali del paese; l'incompatibilità (percepita a livello storico e sofferta sul piano personale) tra un certo tipo di militanza rivoluzionaria e la strategia del PCI. Un “dogmatismo” ed un “rigore” che portano, tra le altre cose, a rifiutare ogni tipo di compromesso; un'impazienza che non è soltanto un fatto generazionale, ma esprime anche un giudizio sulle vane attese di 30 anni di riformismo; ed infine la valutazione dei risultati conseguibili con la lotta armata. Questo primo nucleo di clandestini ha quasi sempre alle spalle una precedente esperienza politica (nella F.G.C.I. - tra i cattolici del dissenso - in uno dei gruppi extra-parlamentari formatisi nel ‘68) e fa parte di quella generazione che all'epoca della contestazione aveva 18-20 anni; una generazione cresciuta nell'attesa messianica di una “nuova società” rispetto alla quale la politica del centro-sinistra appare lontanissima dalle sue aspirazioni.
Inoltre, come ben avevano scritto nel già citato numero di “Quaderni Piacentini” Ciafaloni e Donolo, la “falsa coscienza” del movimento e, quindi, anche di questa prima generazione brigatista, era “già implicita nel modo di identificarsi con forze rivoluzionarie del terzo mondo” e col rischio di “trasferire acriticamente alla situazione italiana acquisizioni ed esperienze che vengono da mondi diversi, siano la Russia di Lenin o la Cina di Mao”.
Il documento di Chiavari
Il collettivo politico metropolitano attorno a cui si forma il nucleo storico dell'organizzazione terroristica, nel dicembre '69, a Chiavari definisce la propria linea sulla violenza e la lotta armata attraverso un documento intitolato: “Lotta sociale ed organizzazione nelle metropoli”. In esso, oltre a contestare lo spontaneismo di Lotta Continua, si propone “la creazione di nuclei organizzativi che si pongano a livello dei problemi sociali complessivi” avendo presente che la prospettiva non è “tanto di vincere subito e di conquistare tutto ma di crescere in una lotta di lunga durata... "processo" rivoluzionario e non "momento" rivoluzionario”.
Accanto a questa consapevolezza di dover dar vita ad un processo di lungo periodo, contraddittoriamente, si afferma che “nelle aree metropolitane nord americana ed europea esistono già le condizioni oggettive per il passaggio al comunismo: la lotta è essenzialmente rivolta a creare le condizioni soggettive”.
Pertanto: “la città è oggi il cuore del sistema, il centro organizzatore dello sfruttamento politico economico..., ma anche il punto più debole del sistema: dove le contraddizioni appaiono più acute, dove il caos organizzato che caratterizza la società tardo capitalista appare più evidente. E’ qui, nel suo cuore che il sistema va colpito”. Emerge una prima forte contraddizione, in seguito, sempre più resasi evidente; alla base dell'analisi del collettivo politico metropolitano (che diventerà poi “Sinistra proletaria” “Nuova resistenza” ed infine “Brigate Rosse”) c'è, infatti, da un lato la consapevolezza che il “movimento” è in crisi e non ha raggiunto risultati politici rilevanti, che la rivoluzione richiederà tempi lunghi, ma che bisogna subito creare organismi politico-militari (scrive infatti nel maggio '71, quando la clandestinità sta già organizzandosi, “Nuova resistenza”: “i compagni devono capire che non si può fare lotta politica se non assumendosi anche la dimensione militare dello scontro”); tali organismi militari devono scatenare subito la guerriglia e, attraverso di essa, mobilitare le masse operaie contro il blocco dominante.
Qual'è la teoria generale da cui muove il terrorismo di sinistra?
Una teoria che, in qualche modo, giustifichi una strategia centrata sulla clandestinità e la lotta armata?
Per “Nuova resistenza” si deve partire dalla consapevolezza che di lì a poco (come di fatto si verificherà) si avrà una nuova crisi economica ed il PCI approfondirà il tentativo di accordo con la DC (il che si verificherà specie dopo gli avvenimenti cileni del '72-73). Inoltre per Curcio e compagni, così come, d'altra parte, per Potere operaio, vi è la convinzione ossessiva che di fronte alla perdurante attività contestativa del movimento la borghesia italiana abbia una strada obbligata: una repressione sempre più generalizzata e dispotica.
Ecco perché in un documento diffuso nel settembre 1971 le BR sostengono che :“affinché il movimento rivoluzionario armato possa affrontare lo scontro con il potere devono realizzarsi due condizioni:
quella di mostrare la propria forza in azioni di lotta armata (già si parla di liberare detenuti politici ed eseguire condanne a morte contro i poliziotti assassini);
far nascere un potere alternativo nelle fabbriche e nei quartieri popolari (dove si dovrà organizzare una mobilitazione unitaria di forze operaie, giovani, emarginati; anche di militanti PCI e “riformisti”, “trascinati” nella lotta delle avanguardie).”
Vi è al fondo una visione dello Stato e della società italiana, di tipo schematico e libresco, con una facile assimilazione dell'Italia alle condizioni dei modelli capitalistici descritti nei testi sacri marxisti-leninisti, della rivoluzione culturale cinese e dell'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani; non vi è alcun approfondimento e cognizione dei caratteri peculiari della storia del nostro paese nel quale la DC può mantenere i suoi caratteri di partito popolare creando un sistema di organizzazione del potere post-fascista sufficientemente stabile e diffuso e dove a sinistra permane un partito comunista, contraddittorio fin che si vuole, ma che conserva nettamente l'egemonia delle masse operaie e contadine ed anche di porzioni significative di ceto medio e piccola borghesia.
Ancora un confondere pericoloso della situazione di crisi istituzionale e sociale esplosa alla fine del centro-sinistra che viene considerata una condizione prerivoluzionaria secondo uno schema di analisi, prevalentemente “nordista” ed “operaista”, che sottovaluta il ruolo ed il peso dell'Italia meridionale e di quella cattolica e contadina. Permane una concezione del rapporto tra movimento operaio e democrazia rappresentativa di tipo tattico-strumentale per cui, attraverso il partito armato, si è convinti che si potrebbe superare tale rapporto e giungere alla lotta armata generalizzata. Infine prevale un determinismo economicistico proprio di illusioni rivoluzionarie degli anni '20 e '30 della terza internazionale.
Per comprendere le ragioni di tali distorsioni ideologiche e contraddizioni presenti sia nelle analisi dei primi gruppi terroristici che dello stesso P.O. basterà ricordare quanto in proposito ha scritto Lucio Colletti (“Dal 1968 ad oggi: come siamo e come eravamo”) a proposito della ideologia ed, in particolare, della dottrina del partito armato. Scrive Colletti: “nata come socialismo scientifico la dottrina marxista, diffusasi tra il movimento del '68, era stata rovesciata in una critica della scienza. Cresciuta come teoria dello sbocco inevitabile del capitalismo industriale nel socialismo in forza delle sue stesse "leggi di movimento", la teoria era stata riplasmata da cima a fondo, come una critica della "società industriale" moderna e come un appello all'immaginazione creatrice della società umana”.
Da qui lo sforzo teso ad individuare il “nuovo soggetto della rivoluzione”. Da qui la valutazione nuova dei rapporti intercorrenti tra le aree del sottosviluppo e le metropoli industriali moderne. Insomma prevalevano, nettamente, i caratteri soggettivi e messianici del marxismo.
Prima generazione BR (1971-1975)
E’ questo il periodo che va dalla primavera '71, in cui “Nuova resistenza” annuncia la scelta della lotta armata, al giugno del '75, con l'uccisione di Mara Cagol, in un conflitto a fuoco, ad Aqui Terme: è il periodo in cui opera il nucleo storico delle BR. E’ in questa fase che si mettono in pratica i metodi di autofinanziamento attraverso le rapine e si allestiscono i primi “processi del popolo” annunciati dal documento BR del settembre '71. (Sequestri Macchiarini, Labate, Ameno, che preparano il colpo del rapimento del giudice Mario Sossi nel 1974). E’ questo il periodo in cui le BR operano in parallelo alle azioni eversive della destra fascista, epoca in cui prevale le teoria degli “opposti estremismi” ed in cui le BR possono operare con particolare intensità in alcune situazioni di fabbrica, favorevoli ad azioni dure. E’ l'epoca del governo di centro-destra (Andreotti-Malagodi) col PCI che ha preso le distanze dalla DC.
E’ un periodo caratterizzato, soprattutto, da azioni propagandistiche ed “esemplari” con le BR che utilizzano un linguaggio altamente simbolico: non ci sono ancora omicidi, ma gogne, con i mass-media che ne amplificano i caratteri comunicativi (il lugubre messaggio del drappo rosso con la stella a 5 punte della Polaroid). Sono anche quegli anni in cui si dispiega il terrorismo nero.
La strategia della tensione del terrorismo nero
La grande spinta a sinistra emergente negli anni '67-68 se, da un lato, provoca la crisi del centro sinistra, dall'altro, fa emergere una controffensiva moderata e reazionaria che si svilupperà negli attentati impuniti di P.zza Fontana, P.zza della Loggia, dell'Italicus e della Stazione di Bologna (dal 1969 al 2 agosto 1980).
Si punta ad utilizzare il disordine e la paura per spostare a destra l'opinione pubblica e isolare la spinta di rinnovamento scaturita dall'autunno caldo.
Nel solo 1969 si sviluppano oltre 300 attentati e violenze di marca fascista. E’ il periodo della "maggioranza silenziosa" di Milano ed in cui prende corpo il torbido complotto della "Rosa dei venti" e l'insieme di quelle oscure manovre (mai del tutto definitivamente accertate) all'interno dei servizi di sicurezza del nostro paese.
Dal 1969 al 1975 si hanno 4.384 attentati ed atti di violenza, l'83% dei quali di impronta fascista; 113 morti (di cui 50 le vittime di stragi e 351 i feriti).
Oltre alle stragi (P.zza Fontana, Gioia Tauro, Peteano, Via Fatebenefratelli, P.zza della Loggia, Italicus) si hanno gli attentati delle SAM, ordine nero, ordine nuovo, giustizieri d'Italia; le spedizioni punitive nella scuola, nelle università e nei quartieri. Alcuni gruppi di sinistra rispondono alle provocazioni con atti di violenza e l'antifascismo militante sfocia nell'estremismo di alcuni gruppi che sostengono da sinistra l'esigenza di una lotta armata contro il sistema (i GAP di Feltrinelli). Particolarmente grave, all'interno di questa strategia della tensione è la rivolta di Reggio Calabria dall'estate del '70 alla primavera del '71 (“Boia chi molla”) che rappresenta il tentativo, fondato sul malessere e la crisi meridionale, di dar vita ad una contrapposizione tra la classe operaia del nord e la popolazione del sud con annessa forte carica antisindacale.
Questa controffensiva di destra sfocierà nel risultato elettorale positivo per l'MSI sia nelle amministrative parziali del '71 (nelle regionali siciliane passa dal 6,6% al 16,3% ed a Roma raggiunge il 16,2%) sia nelle politiche del '72 con un salto del 5,8 all'8,7% (2.800.000 voti - 1 milione in più rispetto al '68). A questa linea dopo un iniziale sbandamento (nascita del governo di centro-destra) subentrerà da un lato la risposta popolare e democratica che sfocerà nel grande raduno antifascista del 28.11.71 (300.000 antifascisti di tutti i partiti) e, dall'altro, una linea del PCI che contrasta con quella estremista dell'antifascismo militante, centrata, quest'ultima, sullo scontro frontale e tendente, invece, quella del PCI, ad impedire la saldatura tra blocco moderato e reazionario.
Significativa è la manifestazione nazionale dei sindacati a Reggio Calabria nell'autunno del '73, mentre, ovunque, nascono i Comitati unitari antifascisti, nei comuni, nelle province e nelle regioni. La DC dopo la scelta del governo Andreotti-Malagodi e l'elezione di Leone alla fine del '71 con i voti del MSI, al dodicesimo Congresso di Roma (accordo di Palazzo Giustiniani) decreta il ritorno alla collaborazione con i partiti del centro-sinistra. Si riapre una fase meno oscura nel paese mentre la DC, con il referendum sul divorzio (maggio '74) e risultati del 15.6.75 e 20.6.76 entra nel suo momento di maggiore crisi con l'avvio di quella “terza fase” in cui, con le profetiche parole di Aldo Moro:” il destino non è più solo nelle nostre mani”. La strategia della tensione si allenta mentre proprio negli anni che vanno dal 1970/76 si dipana l'azione armata delle BR e delle altre formazioni brigatiste.
1973/74 La svolta armata
L'espansione del terrorismo neo-fascista, nel triennio '71/74, rappresenta per le BR una conferma alla loro tesi centrale sulla situazione italiana. In un documento dell'aprile '72 le BR, all'indomani della morte di Feltrinelli, scrivono: “alla permanenza e alla intensificazione della resistenza proletaria i padroni contrappongono un progetto strategico di riorganizzazione reazionaria e neo-fascista dello Stato: il progetto di una grande destra nazionale”.
E più avanti: “Siamo di fronte ad uno Stato "militarizzato" che non riuscendo più ad organizzare per via pacifica il consenso si prepara ad imporlo con le armi”. Di qui la scelta inevitabile della lotta armata nella certezza che: “l'esperienza della lotta di classe nell'epoca dell'imperialismo ci insegna che la classe operaia e le masse lavoratrici non possono sconfiggere la borghesia armata senza la potenza dei fucili. Questa è una legge marxista, non un'opinione”.
Tale svolta suscita discussioni e contestazioni tra le varie componenti extraparlamentari e solo Potere operaio, già in crisi come organizzazione pubblicherà nel suo numero 44 dell'11/3/73 un documento BR del gennaio '73 col quale si risponde alle critiche avanzate dalle altre componenti della sinistra rivoluzionaria e si annuncia il programma elaborato dalla organizzazione clandestina: in quel numero Potere operaio, in polemica con il “Manifesto”, “Lotta continua” e “Avanguardia operaia”, pur mantenendo alcune riserve sul piano ideologico difenderà la tesi BR scrivendo: “chi sono dunque i compagni delle BR? Sono compagni proletari che hanno condotto la lotta dell'autunno caldo nelle fabbriche del nord e che hanno, attraverso una lunga riflessione teorico-politica, scelto la via della clandestinità, nella convinzione che solo questa permette la costruzione di una organizzazione autonoma per la lotta armata.
E’ difficile sostenere che esiste altra via che quella della clandestinità per costruirla... molto più interessante è notare che tutte le azioni BR sono azioni di giustizia proletaria, di contrattacco, di rappresaglia e, insieme, rappresentazioni del potere proletario. Per questo esse parlano direttamente al proletario, agli studenti, agli operai”. La giustificazione morale e politica che le BR adducono alla loro scelta armata è riconducibile:
a) alla presunta politica “terroristica” del fronte padronale (poi del SIM - Stato Imperialista delle Multinazionali) che da Piazza Fontana in poi tende a ricacciare indietro la situazione del Paese;
b) al fatto che le BR “lavorano nelle fabbriche e nei quartieri per la resistenza alla centralizzazione in atto e alla liquidazione delle spinte rivoluzionarie tentate dagli opportunisti e dai riformisti” (Teoria della guerra di difesa preventiva).
In realtà tranne P.O., alla fine del '72, le BR non raccolgono alcune difese tra le diverse componenti della sinistra extra parlamentare, restando la loro azione, tra l'altro, prevalentemente circoscritta al nord.
I NAP ( Nucleai Armati Proletari)
Nello stesso periodo, invece, si organizza il movimento dei detenuti nelle carceri. A questa particolare variabile del “sistema” aveva dedicato grande attenzione Lotta continua fin dalla primavera '71 con uno specifico “lavoro politico” sul sistema carcerario inteso come momento di confluenza tra criminalità, questione sociale e presa di coscienza politica. (Nel 1972 Lotta Continua pubblica di libro: “Liberare tutti i dannati della terra”).
Ed è da questo terreno che a Napoli, dal movimento politico carcerario e sottoproletariato politicizzato sorgeranno i Nap (Nuclei armati proletari) che pur tentando espansioni a Milano e Firenze, resteranno un fenomeno prevalentemente “meridionale”. Il 1973 è l'anno in cui Berlinguer, all' indomani dei fatti cileni, teorizza con un articolo su Rinascita “il compromesso storico”, ossia la strategia di un'alleanza tra le componenti essenziali della vita nazionale e la formazione di un governo da parte di tutte le forze democratiche del paese.
A tale proposta a sinistra del PCI si risponde con lo slogan: “compagno Berlinguer - ricordati che in Cile - il compromesso storico - lo fanno col fucile”, ma il PCI è convinto di poter assorbire tale contestazione. 1969-1973: sono quattro anni nei quali, sostanzialmente non trovano risposte concrete le questioni aperte dal '68 (a parte i decreti n. 910 del dicembre '69 sulla liberalizzazione agli accessi universitari, l'avvento delle regioni e lo statuto dei lavoratori).
E’ questo il periodo in cui, in assenza di un autentico “patto sociale”, sorge la tendenza da parte della classe dirigente, incerta e divisa, a delegare alla magistratura, burocrazia politica e stampa alcune sue funzioni, attraverso una azione di supplenza politica progressiva sempre più pericolosa, specie negli anni successivi.
A sinistra del PCI, la strategia del “compromesso storico” non fa sorgere una forza politica. A cinque anni dal '68 non si è potuto incanalare il sommovimento anticapitalistico e libertario in uno spazio politico omogeneo in grado di garantire un'azione di rigorosa opposizione politica al sistema. I vari gruppi esplosi dal '68 (potere operaio - lotta continua - manifesto - avanguardia operaia - servire il popolo) sono in crisi. Da questa crisi drammatica nasce una vera diaspora: una minoranza, consistente, vede ormai nella lotta armata l'unica via di uscita (dando, così, ragione alla tesi delle BR -è il caso dell'ala “militarista” di Potere Operaio); una maggioranza di militanti rifluirà nel privato o ritornerà nei partiti della sinistra storica.
Ne consegue: una tendenziale emarginazione dei “movimenti collettivi” dalla lotta politica legale ed una delega al PCI ed al sindacato di quelle istanze. Nasce anche qui la svolta dei successi elettorali della sinistra storica: dal referendum del maggio '74 sul divorzio - alle elezioni amministrative del 15/6/75, a quelle politiche del 20/6/76; tanto da far scrivere a Carlo Donolo che “il '68 è culminato nel 20 giugno”.
Dall’estensione del partito armato all’assassinio di Aldo Moro
Nell’articolo precedente abbiamo esaminato il contesto socio-economico e politico-culturale entro il quale nasce l’esperienza delle Brigate Rosse: sintesi minoritaria, seppur non effimera, di quel vasto sommovimento di componenti e forze soprattutto della sinistra e di significative presenze del mondo operaio sindacalizzato. Sara’ proprio negli anni successivi che si assistera’ all’estensione virulenta del partito armato.
1974-1977: Il Partito armato si estende
Le BR nell'aprile '74 effettuano il rapimento del giudice Mario Sossi e in un opuscolo di quel mese intitolato “contro il neogollismo portare l'attacco al cuore dello Stato” evidenziano, sul fronte avversario, l'esistenza di due linee:
1) quella “golpista” (la costante dei documenti precedenti);
2) quella di un “progetto neo-golpista di riforma costituzionale”.
Contro quest'ultima tendenza le BR si propongono di “rendere evidente l'approfondimento delle contraddizioni all'interno e tra i vari organi dello Stato”. Il rapimento Sossi rientra in questo quadro. Con questa azione l'opinione pubblica, anche quella di sinistra, è costretta a riflettere sulla nuova situazione caratterizzata dalla presenza del “partito armato”. A maggio si voterà per il referendum sul divorzio; è dunque facile il nesso secondo cui, in base al vecchio “a chi giova ? ”, le BR, fin lì chiamate dal PCI e, in generale, dai partiti di sinistra, “sedicenti Brigate Rosse” conducano un'azione oggettivamente di destra e che porterà acqua a Fanfani ed alla DC.
Sarebbero insomma dei “provocatori”, manovrati dalla destra interna e/o internazionale. Unica voce critica quella di Leonardo Sciascia che in un articolo sull'“ Espresso” si chiede come possano forze, che pur si richiamano ad ideali rivoluzionari, a non riconoscere nelle azioni BR i caratteri specifici rivoluzionari. Perplessità nei gruppi extraparlamentari. Solo la rivista dell'Autonomia operaia "Rosso" nel giugno '74 scriverà: “Le BR e le loro "azioni violente" costringono oggi la sinistra a prendere posizioni nei confronti della violenza e ad uscire allo scoperto.
E questo ci sta bene. A troppi sedicenti rivoluzionari sono bastate poche settimane di segregazione dorata di un magistrato per dimenticare la segregazione della classe operaia nelle fabbriche: le morti bianche - i morti sotto i colpi della polizia - gli assalti e le bombe fasciste, per recuperare in fondo una facciata “democratica”che passa attraverso la condanna delle BR. Quello che non ci va bene è invece la violenza clandestina anche alle masse. Il nostro dissenso è tutto e solo politico: non esiste il golpe neogollista da fronteggiare: il nemico da abbattere è il partito del lavoro che lega borghesia e riformisti”.
Lotta di massa, dunque, e non di una sola avanguardia. Sarà proprio il rapimento di Sossi - l'uccisione dei due neofascisti nella sede dell'MSI a Padova e l'arresto di Curcio (grazie all'infiltrazione di frate Girotto sotto la regia del gen. Carlo Dalla Chiesa) a segnare una prima svolta nel terrorismo italiano. A livello politico si precisa più nettamente la distinzione tra quelle forze della sinistra extraparlamentare che condannano apertamente la violenza e la clandestinità e quelle che dissentono politicamente dai BR, giudicati “compagni che sbagliano” e che ritengono che la “violenza di massa” sia inseparabile da una lotta rivoluzionaria.
Si riorganizzano le forze dell'ordine (Dalla Chiesa assume un ruolo di primo piano nelle indagini) mentre i risultati elettorali del '74-75 - l'avvento della nuova linea del “confronto” nella DC - la cattura del nucleo storico originario BR fa consumare questa prima esperienza.
Autonomia operaia
È in questi anni che, invece, si sviluppa il movimento degli autonomi che, partendo dalla crisi sempre più grave delle componenti extraparlamentari e dagli effetti negativi sulle avanguardie sindacali ed operaie del nord suscitate dalla strategia del “compromesso storico”, porterà alla nascita di nuove formazioni combattenti. Così all'inizio del '75 i comitati operai di Sesto S. Giovanni, della Marelli e della Talettra escono da Lotta continua durante il congresso nazionale del gruppo e costituiscono con alcuni ex P.O. il gruppo “Senza Tregua”, tramite non marginale per il passaggio di nuovi elementi alla lotta armata.
Una discussione serrata è intervenuta tra BR ed Autonomia (quest'ultima sostiene la necessità della violenza ma ritiene che debba avvenire alla luce del sole, dalla espansione del movimento e dalla capacità delle masse): le BR nella risoluzione della direzione strategica dell'aprile '75 (guerriglia urbana e sulle assemblee autonome) rifiutano di "considerarsi braccio armato dell'autonomia", giudicano "un errore il tentativo di organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata" ed insistono sul significato di "propaganda armata" che ha l'azione del "partito combattente" che esse sono.
Compito del “movimento” è, semmai, per le BR quello di “radicare l'organizzazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe”. Così saranno le esperienze maturate soprattutto nei “servizi d'ordine” di Lotta Continua che porteranno altri giovani militanti a costituire nel 1976 uno dei gruppi terroristici più feroci: Prima Linea ( omicidi Alessandrini - Galli - Minervini). Alla base della concezione di Autonomia operaia ed organizzata vi è una concezione essenzialmente marxista-leninista con accentuazioni e rivisitazioni conseguenti all'introduzione dell'analisi marcusiana (dal marxismo del paleo-capitalismo di produzione al marxismo del neo-capitalismo distributivo) e dei “nuovi filosofi” francesi Delauze (“L'antiedipo” una sorta di secondo “manifesto” per molti studenti) e Guattari (“La rivoluzione molecolare”) (quest'ultimo è quel filosofo che venne a Bologna nel settembre '77 a dirigere il movimento degli Autonomi e che insieme a Sartre fece il famoso appello contro la repressione in Italia).
Per Toni Negri, il maitre a penser italiano, Marx ha tralasciato nella sua teoria una parte essenziale e, cioè, la teoria del bisogno: “del desiderio e del bisogno”. Dicono Delauze e Guittari nell'Antiedipo: “l'uomo è una macchina che produce desideri. I desideri sono l'espressione del bisogno più forte dell'uomo. I desideri non sono nient'altro che la moltiplicazione o l'incarnazione della libidine, della libido, della forza sessuale. Forza sessuale che per Freud è destinata al triangolo edipico padre, madre, figlio: alla famiglia.
Ed allora proprio per questo la forza libidinale perde la sua capacità rivoluzionaria di trasformazione della società e va ad aiutare a creare la famiglia che, a sua volta, è il sostegno dello Stato, della stabilizzazione dello Stato.
Per questo il capitalismo ci tiene ad avere la famiglia ordinata perché le famiglie ordinate sostengono lo Stato, quello Stato che è al servizio del capitalismo. Allora che cosa si deve fare? Bisognerà liberare questa potenza libidinale, il desiderio, dal cerchio della famiglia; liberarlo affinché possa rigettarsi sulla società e comporla nella scomposizione continua, quando i desideri di ognuno si rovesceranno sulla società, in quel momento avremo la "schizo", la rottura generale. La filosofia dello schizo, come viene chiamata, è quella rottura generale a seguito della quale si realizzerà un nuovo mondo”. E’ ovvio che se i desideri che sono nell'uomo vengono da qualcuno repressi, costui è un repressore e pertanto va represso; ecco dunque la violenza, il ricorso alle armi, il dare addosso a quell'organismo di cui il capitalismo si serve: lo Stato e tutti suoi organi, a cominciare dalla famiglia. Nel libro di Negri : “Dall'operaio massa all'operaio sociale” è presente interamente tale concezione.
Ed è qui che inizia la contrapposizione tra la visione di Autonomia e quella del PCI e della sinistra parlamentare in genere.
Prendendo lo spunto dalla filosofia francese del desiderio, Toni Negri contesta al partito che si rifà agli ideali di Marx e Lenin di distruggere gli ideali marx-leninisti. A che cosa si è ridotto, secondo Negri, infatti il PCI?: “Ad assumere in proprio la politica rivendicativa sindacale. Ad una politica di sostegno del movimento sindacale che segue ancora il vecchio tipo di rivendicazioni dei diritti, di migliori condizioni economiche e di lavoro. Si riducono gli operai a lavorare di più, a lavorare meglio e quindi a potenziare la produzione, a proteggere lo Stato e, con lo Stato, il capitalismo che ne è il padrone. Ma questo è un perfetto tradimento della causa rivoluzionaria e di tutto l'ideale di Marx. E proprio quando il PCI, dopo la vicenda del Cile, capisce che forse non si può tentare la via della violenza e decide di rinunciare alla via della rivoluzione effettiva per una via democratica, specialmente attraverso il famoso ideale del compromesso storico, è allora che si prende la grande decisione: o adesso la rivoluzione o mai più. Adesso perché c'è una parte del movimento favorevole”. E’ il momento dei grandi movimenti operai, delle giornate di Torino e dell'occupazione di Mirafiori nel 1973. (La settimana di occupazione ed “il partito di Mirafiori”).
Che cosa si spera dalle azioni violente?:
Che gli atti terroristici potessero compiere una funzione di propaganda (far sapere ai proletari che c’è un gruppo militante che ha preso le cose in mano e si è deciso a passare alla rivoluzione);
un'azione di educazione e/o catalizzazione (educare, attraverso l'azione partigiana, la sinistra proletaria e rivoluzionaria alla lotta armata); una funzione di smascheramento (costringendo l'avversario a mostrare il suo volto per obbligarlo a ricorrere ad atti di guerra lui pure. Per far apparire lo Stato nella sua “vera veste” ossia di “responsabile della violenza”); una funzione catartica, cioè di liberazione e/o valorizzazione.
Scrive Sartre in prefazione al libro di Fanton “I dannati della terra “: “quando uno ammazza si sente il suolo nazionale sotto i piedi... figlio della violenza attinge ad essa la sua umanità. Eravamo uomini a sue spese, si fa uomo alle nostre. Un altro uomo: di qualità migliore”.
Così i Nap in un documento dicono che attraverso la violenza collettiva hanno preso coscienza di “essere stati vivi, di avere vissuto un momento - giorni e notti - di libertà... cioè la coscienza di aver superato il nostro decadimento di classe e rifiutano il concetto borghese di giustizia”. Insomma “la violenza collettiva non è soltanto una lotta per la libertà ma è anche una lotta per la scoperta della propria dignità umana e sociale”. La lettura dei documenti pubblici di Autonomia (in particolare della rivista “Rosso”) che, dopo i fatti del marzo '77 a Bologna e gli incidenti di Roma per il comizio di Lama all'università, scrive: “abbiamo bisogno della forza che legittimi i comportamenti illegali del proletariato, del contropotere che si espande tra tutti gli strati del lavoro subordinato che occupa e tiene territori operai. Abbiamo bisogno del partito come organizzazione della guerra civile e direzione dell'esercito proletario”, fanno concludere che, almeno politicamente, nette sono le responsabilità di tale organizzazione.In particolare nel Veneto Autonomia ha trovato una sua precisa collocazione in termini di insediamento, diffusione organizzativa ed attività eversive.
Veneto e terrorismo: una matrice cattolica nel terrorismo italiano?
Il giornalista comunista Mino Monicelli nel giugno '81 pubblicava un libretto intitolato «La follia veneta»: come una regione bianca diviene culla del terrorismo, col quale si cercava di stabilire un collegamento privilegiato tra terrorismo e tradizione culturale, sociale e politica veneta. Proprio attorno alle tesi di un presunto «laboratorio veneto dell'eversione» si è aperto su un primo articolo di Toni Negri, pubblicato su il "Mattino" di Padova il 15 gennaio '81, un dibattito che ha visto gli interventi di Ferdinando Camon, Silvio Lanaro, Enrico Berti, Luigi Viviani, Mario Isnenghi, Padre Piero Scapin, Maurizio Mistri, Severino Galante, Umberto Curi, Sabino Acquaviva, e, successivamente, di Massimo Cacciari.
In termini quantitativi diremo che il Veneto non ha primati particolari, fortunatamente, da esibire, «vantando» un non ambito sesto posto nella graduatoria delle attività del partito armato nelle singole regioni: 672 attentati a cose, 261 episodi di violenza, 9 feriti in agguati. Venendo ad un esame più dettagliato si evidenzia il triste primato, nell'ambito regionale dell'eversione rossa e nera, di Padova (nona in Italia per numero di attentati a sedi politiche e sindacali - quinta in Italia per numero di morti e feriti) seguita da Venezia, Vicenza, Verona e Rovigo.
In termini di riferimento storico ricorderemo che i primi nuclei BR non nacquero nel Veneto, ma dalla confluenza del collettivo politico metropolitano milanese di Curcio e del gruppo dell'appartamento (ex PCI) di Reggio Emilia (Franceschini Ognibene - Gallinari) mentre, certamente, qui nacquero, sulla esperienza dei primi nuclei operaistici (lotte sindacali di Torino, inizio anni '60 e di Marghera fine anni '60), i maîtres à penser di Potere operaio e, dopo la chiusura di questo (convegno di Rosolina 1973), di Autonomia organizzata.
Se ci si riferisce al Veneto, culla del cattolicesimo democratico e cristiano sociale, per risalire ad una presunta matrice "cattolica" del terrorismo diremo che, certamente, espressioni ricorrenti nel linguaggio BR come "fede nell'assoluta giustezza delle proprie posizioni", un "dogmatismo" e "fede messianica" sembrerebbero far riferimento ad un certo assolutismo e dogmatismo propri di una formazione cattolica. In realtà quando nel nostro paese ci si riferisce alla «matrice cattolica» di un certo tipo di estremismo, il dibattito raramente si situa a livello di una rigorosa analisi storica e, spesso, più che di dibattito si è in presenza di obliqui riferimenti da parte di certi settori della sinistra i quali vorrebbero far risalire la violenza non già a precise condizioni politiche e sociali, ma ad una sorta di vizio di origine, appunto la presunta «matrice cattolica». Forse l'unico dibattito rigoroso su questo tema fu quello che si aprì il 4 maggio '76 con un articolo di Giorgio Amendola sul «Corriere della Sera» («irruzione nel campo della lotta di classe di masse di origine contadina, di ispirazione cattolica, estranee alla tradizione di lotta paziente del movimento operaio fatta di disciplina e di conquiste graduali») e che proseguì con la risposta di Pierre Carniti ("Popolo" del 6 maggio).
Più realisticamente noteremo che per la maggior parte dei giovani degli anni '50 (almeno per quelli che, come molti di noi, scelsero l'impegno sociale e politico) a parte l'Emilia (dove il riferimento è semmai il PCI e la rete della sua organizzazione diretta e indiretta sociale) in regioni come il Veneto, il Trentino, la Lombardia, i punti d'appoggio obbligati non potevano che essere le organizzazioni cattoliche giovanili. Ecco perché non sorprende trovare in molte biografie di parecchi brigatisti (specie della prima e seconda generazione: Curcio, Senzani, Cagol) l'esperienza giovanile in qualche organizzazione cattolica.
Ma sono sempre esperienze preliminari, parziali, superate, quando anche del tutto rinnegate, dalle scelte successive intervenute; tutte, comunque, sempre operate sulla base di intervenute opzioni, più o meno dogmatiche, marxiste-leniniste. Ma un discorso sul terrorismo nel Veneto e su «Autonomia», a parte quanto già detto a proposito di quest'ultima, non può essere seriamente condotto estrapolando dal contesto socio-culturale concreto in cui esso si è più radicato; senza fare riferimento, dunque, all'esperienza dell'università di Padova, alla facoltà di psicologia, di scienze politiche, alla vicenda di Potere operaio prima e di Autonomia, dal primo generata, ed alle esperienze che dal '68 in poi qui vi si realizzarono. La conclusione è che dal 1971-72 al '79 Autonomia era oggettivamente un gruppo eversivo, violento, che puntava ad organizzare la lotta armata e la insurrezione e che, da una prima fase di violenze verbali passò alle intimidazioni, picchettaggi violenti, violenze e saccheggi, secondo una teoria che prevedeva l'espansione della "illegalità di massa" dovunque, nell'ateneo e nella città.
Autonomia Operaia e il “teorema Calogero”
E si giunse ai tentati omicidi (barbaro agguato al Prof. Guido Petter il 9 maggio '78) e, via via, alle «notti dei fuochi» del '78-79 ed ai ferimenti di Mercanzin, Longo e Ventura. Non ci pare si possa con onestà politica ed intellettuale sostenere che la causa del terrorismo vada ricercata nel «modello di sviluppo del Veneto elaborato dalla DC» o nella «cultura cattolica» o nella «gestione moderata» dell'università di Padova; così come errato sarebbe allontanare acriticamente da noi il fenomeno, tentando di rimuoverlo come una cosa che non ci tocca e non ci appartiene. Anche nel Veneto, come per l'intero paese, alla base del terrorismo sta un complesso e multiforme insieme di variabili sociali, economiche, politiche e culturali; qui, più che altrove, ha saputo e/o potuto (è questa semmai una precisa responsabilità politica anche nostra) proliferare Autonomia operaia, un gruppo eversivo che larga parte ha rappresentato come «cervello pensante» prima e come base di reclutamento privilegiato poi dall'eversione terroristica (oltre ad essersi resa colpevole di numerosissimi fatti specifici penalmente rilevanti).
Spetto’ alla Corte d'Assise di Venezia emettere un verdetto con cui si stabili’ che Negri e gli altri incarcerati del 7 aprile non erano solo dei teorici e nulla di più ma degli indiziati con a carico prove solide e convincenti ; insomma il cosiddetto “teorema Calogero”, dal nome del magistrato padovano che condusse l’inchiesta, non era una mera ricostruzione logico processuale. Dopo la sentenza fu chiaro che non fu corretto il tentativo di ridurre il dibattito su Autonomia operaia ad una mera disputa filologica sulla pericolosità sociale della produzione scientifica e letteraria di quel gruppo. Sarebbe, tuttavia, ingiusto non evidenziare i limiti e le contraddizioni emerse anche dalle contrastate successive sentenze risultato di diversi capi di imputazione attribuiti agli stessi personaggi, in molti casi piu’ collegati alle idee e agli scritti che non a fatti concretamente riconducibili a personali e, dunque, penalmente rilevanti, responsabilita’. In quel “teorema Calogero” furono coinvolti come imputati diversi personaggi, la maggior parte dei quali erano accademici, giornalisti e insegnanti presuntamente collegati al movimento chiamato “Autonomia Operaia”. Il più noto fu Antonio Negri, docente di scienze politiche all'Università di Padova e alla Sorbona di Parigi. Gli arresti ebbero luogo in seguito al sequestro e all'omicidio (tra marzo e maggio del 1978) dell'ex-Primo Ministro Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse. Quasi tutti gli arrestati d'aprile e nella successiva retata del 21 dicembre 1979 avevano fatto parte, qualche anno prima di Potere Operaio. A fine 1982, tra Roma e Padova, gli imputati del 7 Aprile sono 140. Tra i capi d'accusa, vi sono "associazione sovversiva" e "organizzazione di o partecipazione a banda armata". Alcuni imputati sono anche imputati di "insurrezione contro i poteri dello Stato", e rischiavano una condanna all'ergastolo se sentenziati colpevoli.
Il 21 giugno 1983 il dott. Pietro Calogero, Sostituto Procuratore a Padova emise nuovi mandati di cattura per svariati imputati del processo 7 Aprile in corso a Roma in relazione al possesso di armi nel periodo 1971-79 (art.21 della legge n.110 del 18/4/1995). Un articolo pubblicato nell'agosto 1983 sul bollettino di Amnesty International diceva: "A questo stadio del processo, l'aggiunta di una nuova accusa - apparentemente non supportata da nuove prove a carico di imputati già sotto processo con imputazioni relative a una banda armata - permetterà un'ulteriore estensione della carcerazione preventiva, aggiungendovi fino a quattro anni per questa distinta imputazione. Alcune delle armi in oggetto sono già state oggetto di un altro processo contro alcuni degli imputati, nel luglio 1980". (Amnesty International Report 1984, pp. 291-292)
Nel giugno 1984, di fronte alla Prima Corte d'Assise di Roma, si concluse finalmente dopo due anni il processo noto come 7 Aprile. Molti degli imputati erano in carcere fin dal 1979 (Amnesty International si è occupata di questo caso sia per la lunghezza della carcerazione preventiva sia per le procedure adottate in istruttoria e in dibattimento).
Cinquantacinque imputati sono stati condannati, complessivamente, a quasi 500 anni di prigione. Quasi tutti sono stati riconosciuti colpevoli di banda armata e associazione sovversiva.
Nonostante i palesi limiti e le forti contraddizioni che accompagnarono i processi collegati al “teorema Calogero” (ricordero’ per tutti il caso del carissimo Emilio Vesce, redattore delle riviste "Rosso" e "Controinformazione", persona mite e pacifica anche se giornalista impegnato sul fronte della contestazione al sistema capitalistico, poi passato su posizioni moderate, quale consigliere regionale del Veneto e con il quale ebbi modo di scambiare molte opinioni sui fatti qui raccontati) non si possono, tuttavia, negare e dimenticare le violenze, le devastazioni, i pestaggi, gli attentati ed i giorni d'incubo della "follia veneta".
“Autonomia organizzata” e le sue filiazioni portano un marchio di infamia che nessuno potrà più scordare e le indicazioni di quei “cattivi maestri” hanno lasciato un segno che ha bollato, in taluni casi per sempre, la vita di molti giovani terroristi e quelle delle loro vittime innocenti.
L'affare Moro: l'attacco al « cuore dello Stato»
Col rapimento e l'uccisione di Aldo Moro il terrorismo rosso raggiunge il punto più elevato della sua azione. Se la prima generazione BR negli anni 1971-77 aveva via via innalzato il livello del tiro dai rapimenti, rapine, assassinii di forze dell'ordine e di magistrati, le nuove leve BR collegate, almeno politicamente, al nucleo storico originario, giungono a concepire l'attacco al «cuore dello Stato» riconoscendo nella DC e nel suo presidente più prestigioso il simbolo del sistema. Il procedere della crisi mortale delle maggiori componenti della sinistra extra parlamentare e l'allargarsi dell'area autonoma, provoca anche l'effetto di far trovare migliaia di giovani, avversi più o meno confusamente al «sistema dei partiti», senza nessun referente politico con il quale fare i conti e dal quale ricavare indicazioni di condotta. Quadri sindacali, formatisi nelle lotte dell'autunno caldo e che avevano creduto alla possibilità di un mutamento radicale dentro e fuori della fabbrica, delegati operai, prendono proprio in questo momento le distanze dall'azione legale e finiscono con il confluire in quell'area in qualche modo vicina e/o collegabile con l'eversione.
E’ questo, probabilmente, il momento in cui le BR godono del massimo di copertura e di radicamento sociale (vedi Cesare Golfari;” Cossiga due, Forlani uno- gli anni del preambolo- Edizioni Lativa,1982)). Attorno al '77 ci fu come il precipitato politico di tutto un universo di convinzioni, soggettività, figure sociali sconosciute o almeno impreviste che sembrò trovare un suo cemento nella convinzione della «non trasformabilità» del sistema, almeno nelle forme della democrazia politica. La democrazia sembrava impotente ed al tempo stesso segnata da tentazioni repressive ed autoritarie. L'ipotesi armata diventava se non altro un'ipotesi accettata all'interno di movimenti certo più vasti e composti e sembrava assumere una capacità neutralizzante (la teoria dei «compagni che sbagliano») anche nei confronti di forze e posizioni da essa molto lontane. E qui che il terrorismo da insieme di complotti o sotterraneo lavorio di gruppi diventa vero e proprio "partito". (Dalla lotta di classe alla guerra di classe).
Già nel '78, durante il rapimento di Moro lo slogan «né con lo Stato né con le BR» esprimeva sostegno implicito o inespressivo al terrorismo o, quanto meno, una permanenza od allargamento di un estremismo antistatalistico; comunque un tentativo di tutta un'area di separarsi, di distinguersi da quello che veniva visto come uno scontro tra apparati, entrambi estranei ed ostili. Le BR, le cui nuove leve, dopo quelle del nucleo storico in quei giorni processate a Torino per l'assassinio Coco, si dimostrano assai più determinate, fredde, violente e decise ad alzare il tiro dell'azione terroristica, inseguono la logica dell'attacco frontale al cuore dello Stato, nell'intento di creare nei tempi brevi, una situazione di confusione e di disorientamento tale da favorire l'attesa mobilitazione della classe operaia del nord. E’ proprio questo l'errore di valutazione politica delle BR.
L’”Operazione Fritz”
“ Operazione Fritz” fu chiamata quella del sequestro-assassinio della scorta e del rapimento dell’On Aldo Moro. All’agguato, il 16 Marzo 1978 in Via Fani a Roma, prendono parte i 4 brigatisti-avieri (avevano indossato divise dell’aviazione): Prospero Gallinari, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Franco Bonisoli, più Mario Moretti, Alessio Casimirri, Alvaro Loiacono, Barbara Balzarani, Bruno Seghetti e Rita Algranati, la “vedetta”.
Passeranno 54 giorni durante i quali Moro cerca disperatamente con le sue lettere di trovare una via d’uscita, una trattativa con lo Stato che, tuttavia, ne’ la DC, ne’ gli altri partiti della maggioranza e della stessa opposizione riescono a definire. Nemmeno l’ultimo accorato e commosso appello di papa Paolo VI riesce a far breccia tra le due parti in guerra.
E cosi’ il 9 Maggio il corpo senza vita di Aldo Moro viene trovato in Via Caetani, strada che collega , per un ultima macabra simbologia, le sedi dei due partiti ritenuti entrambi responsabili del nuovo corso politico instaurato: la sede centrale della DC di Piazza del Gesu’ da un lato e quella del PCI in via delle Botteghe oscure. A sparare fu Mario Moretti.
Saranno quattro i processi principali del caso Moro. Il primo, che unificava il Moro-uno ed il Moro-bis, si è concluso in Cassazione (22 ergastoli) nel novembre 1985. Il Moro-ter si è chiuso nel maggio 1993 (20 ergastoli), il Moro-quater nel maggio 1997 con la condanna definitiva all'ergastolo per Alvaro Loiacono. Il Moro-quinquies si è concluso in due tempi (nel 1999 e nel 2000), con le condanne definitive di Raimondo Etro e Germano Maccari. Parallelo a questi procedimenti, quello denominato "Metropoli", volto a chiarire i rapporti tra il progetto della rivista omonima (ed in particolare di due dei suoi redattori, Lanfranco Pace e Franco Piperno) con le Brigate Rosse.
La posizione delle forze politiche
Il rapimento e l'uccisione di Moro, come operazione politica del terrorismo, se si concluderà con la vittoria militare delle BR, segnerà, anche, la sconfitta politica delle stesse; una sconfitta destinata a pesare successivamente, se è vero che il solo messaggio propagato da quell'impresa è stato quello della «efficienza militare» - (“ la geometrica potenza”) mentre sul piano politico l'unico messaggio è quello della violenza e della morte senza altre spiegazioni e senza capacità di suscitare concrete e sperate mobilitazioni. Al contrario si rinsalda tra le forze politiche la volontà di opporsi in modo fermo e rigoroso al terrorismo anche se, a sinistra del PCI, una frattura permane e non è affatto ricomposta. Tuttavia il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro rivela, anche, oltre alla pericolosa inefficienza e impreparazione tecnica delle forze dell'ordine, un pericoloso disorientamento tra le forze politiche.
Tra la stessa maggioranza parlamentare della solidarietà nazionale esistono notevoli contrasti che nascono da divergenze nella valutazione del terrorismo; divergenze che hanno la loro origine nelle diverse concezioni del rapporto Stato-società. Da un lato la DC e il PCI sono soprattutto preoccupati di fornire all'opinione pubblica un'immagine di «eredi legittimi» della tradizione liberale che sta alla base della continuità dello Stato democratico e, come tali, assumono una posizione di rigida ed intransigente difesa delle ragioni dello Stato.
Il PCI, d'altra parte, deve anche tener conto che l'azione BR è rivolta contro le scelte dell'unità nazionale e punta a creare difficoltà all'egemonia comunista sulla classe operaia, proprio nel momento in cui il suo definirsi «partito di lotta e di governo» lo pone in una posizione oggettiva di debolezza a sinistra. L'atteggiamento dei comunisti fu imposto dalla necessità di evitare che l'impresa terroristica avesse influenza sulla base del PCI stesso, alla quale era rivolta l'iniziativa BR. Vi era, insomma, Il timore che una legittimazione politica delle BR, derivante da una trattativa politica, potesse dar coraggio agli elementi filo BR presenti nella sinistra ed indurli ad uscire allo scoperto.
Quale era infatti il clima politico nel maggio '78? L'offensiva del partito armato marcia su due direttive: da un lato le BR con la loro campagna primaverile di annientamento alzano il livello dello scontro; dall'altro Autonomia Operaia punta ad esasperare le lotte sociali generalizzando la pratica della violenza. Se la saldatura tra questi due tronconi del partito armato fosse riuscita, si sarebbe creato in Italia un polo marx-leninista capace di esercitare una forte attrazione su una parte non indifferente della base comunista ed in quell'« area grigia» che separa la sinistra storica dall'anello più esterno del partito armato. Di fatto per il PCI sarebbe stato un rischio mortale. Scoprire l'«album di famiglia», mostrare tutti i Gallinari ed i Franceschini comunisti-brigatisti, avrebbe significato annullare gli effetti della «lunga marcia verso l'occidente» del PCI.
Perciò il PCI non accettò nemmeno per ipotesi la possibilità di una trattativa bloccando, in tal modo, la stessa DC che, diversamente, avrebbe spinto i comunisti a provocare una crisi di governo. Moro stesso aveva ben capito dal carcere che proprio la posizione comunista impediva la possibilità di una seria trattativa ed all'amico Tullio Ancora scriveva dalla prigionia BR: «ricevo come premio dai comunisti dopo la lunga marcia la condanna a morte». Il PSI, appena uscito dal congresso di Torino sulla linea della «alternativa» e quindi tendente a porsi come ago della bilancia tra i due partiti più forti, assume una posizione più duttile, disponibile alla trattativa; forse per trovare spazi di differenziazione rispetto alla DC ed al PCI.
Ma anche il PSI che pure si dimostrò disposto alla trattativa, non poté giungere alle estreme conseguenze di quella scelta e cioè la possibilità di costituire se necessario, un governo fondato su una diversa maggioranza. Noi della DC, oggettivamente, restammo come paralizzati entro questo dilemma; di fatto sposando la tesi della fermezza ad oltranza ed a tutti i costi. Ma, soprattutto, durante il caso Moro, emerse più netto un tentativo da parte dei mass-media e dei partiti di esorcizzare ed una tendenza a non voler conoscere a fondo il fenomeno; come se la conoscenza dello stesso potesse produrre qualcosa di rischioso e/o di catastrofico (album di famiglia, matrici ideologiche, ecc.).
D'altra parte proprio la conclusione tragica della vicenda Moro aprirà (Morucci - Faranda e poi via via altri) il processo di inesorabile disgregazione anche sulle linee strategiche del partito armato, premessa per i successivi risultati che lo Stato democratico ha saputo raggiungere.
Dopo l’assassinio di Aldo Moro e l’ultima fase del terrorismo italiano
Alla conclusione tragica del rapimento di Moro succede un periodo assai convulso e confuso. La politica di unità nazionale entra in crisi. Aumentano vertiginosamente gli attentati e gli assassinii politici dell'una e dell'altra organizzazione (BR e Prima Linea) e, all'interno del partito armato, si apre una lotta di supremazia senza quartiere tra l'«ala movimentista» e quella «militarista». Nel rispetto al rigido militarismo delle BR venne delineandosi un disegno, portato avanti da Autonomia organizzata, di integrazione delle BR in un progetto di sovversione più ampio ed articolato, fondato su un raccordo politico-militare con le istanze di lotta dei cosiddetti «nuovi soggetti rivoluzionari».
Tutto cio’ in linea con la nota indicazione di Franco Piperno: «coniugare la terribile bellezza del 12 marzo a Roma con la geometrica potenza di Via Fani» che, con le successive confessioni di Antonio Savasta , assumono una luce del tutto particolare. Questo è un progetto che andava avanti da tempo attraverso l'entrata in campo, nel 1976, di Prima Linea, come sostanziale filiazione di Autonomia, e perfino all'interno della colonna BR (dissidio Morucci Faranda i quali, nel gennaio 1979 lasciano le BR per dissensi sulle modalità della gestione e dell’epilogo dell’affaire Moro e vengono poi arrestati nel Maggio di quello stesso anno).
Anche se proseguiva l'escalation degli agguati, delle violenze e degli assassinii (dai giudici Tartaglione, Calvosa, Alessandrini al docente Paolella, i carabinieri Esposito, Lanza, Porceddu, Paglia, Guerrieri, Campagna, Crea, Ollanu, Varisco, Granato, Battaglin, Tusa, Taverna, all'operaio comunista Guido Rossa ad opera dei membri di punta della colonna genovese delle BR, ai dirigenti Coggiola, Dutto, Schettini, Ghiglieno) la crisi politica nel partito armato si era aperta, ma sarà proprio con l'inchiesta del 7 aprile '79 aperta dal giudice Calogero contro i capi di Autonomia nel Veneto che il terrorismo, gia’ diviso politicamente al suo interno, subisce il primo duro colpo, come sarà confermato dagli sviluppi successivi.
Si tratta di una vera svolta della lotta contro il terrorismo poiché sembra scardinato l'elemento portante dell'impianto strategico del partito armato, ossia il ruolo chiave degli autonomi, la cui duplice articolazione, clandestina e legale, è stata probabilmente il punto di saldatura tra la pratica degli illegalismi di massa (la cosiddetta «area della insubordinazione sociale o della nuova spontaneità») e la lotta armata, quella delle BR e di PL e di una miriade di altre sigle.
Grazie alle iniziative coraggiose di decine di magistrati democratici ed una lunga, fruttuosa serie di operazioni condotte dalle forze dell'ordine, verso la fine del 1979 si apre una vera e propria crisi del terrorismo. Si susseguono i pentimenti e le confessioni (Peci - Sandolo - Viscardi - Barbone - Savasta), mentre con l'episodio della liberazione del gen. della Nato, James Lee Dozier si verifica una raggiunta, finalmente, concreta efficienza delle forze dell'ordine.
Quel tragico 1980
Il 1980 sarà l'anno più drammatico (135 vittime: Albanese - Bachelet - Piacentini -Minervini - Galli - Mario Amato - Tobagi - Pino Amato - Paoletti - Gori - D'Urso - Galvaligi). Se fino al 1974 hanno operato, soprattutto, gli uomini della prima generazione brigatista, dal '74 al '78 ad essi si affiancano i «più duri» della seconda generazione, mentre proprio il rapimento Dozier mostra che il reclutamento negli ultimi anni ha fatto proseliti tra i giovani in età compresa tra i 20 e 21 anni e che, pertanto, non possono essere ricollegati né ricollegabili ai moti studenteschi del '68, né a quelli del '77.
E’ semmai una dimostrazione di difficoltà da parte del terrorismo di trovare una via d'uscita alla crisi che lo ha investito, sia sotto il profilo del suo isolamento dalle masse, sia sotto quello del declino di buona parte delle sue stesse capacità operative. Un altro elemento inedito è il determinarsi nell'80 di una incidenza fortissima del fenomeno dei pentimenti e delle confessioni; di collaborazioni con la giustizia, mentre per la prima volta nel computo delle vittime connesse al terrorismo compare l'assassinio, o meglio la vera e propria esecuzione a scopo di vendetta, di ben nove terroristi accusati di «collaborazionismo».
Il 7 Febbraio 1980 a Milano viene assassinato William Waccher, militante di Prima Linea, arrestato nel luglio del ’79 e accusato dai suoi compagni di essere un delatore. Regista dell’operazione, senza uno straccio di prova su quanto addebitato al Waccher, Sergio Segio.
Il 1980 è anche l’anno degli arresti di brigatisti eccellenti quali Patrizio Peci e del capocolonna torinese Rocco Micaletto. E sarà proprio l’ ”infame” Peci a determinare con le sue confessioni uno dei più duri attacchi alle BR con l’arresto di 70 brigatisti (strage di Via Fracchia a Genova, il 28 Marzo), lo scoprimento di numerosi covi e, soprattutto, l’avvio di quel fenomeno del pentitismo, favorito dalla legislazione emergenziale, che favorirà la progressiva dissoluzione del partito armato.
Volendo ricordare solo i morti piu’ noti per mano terroristica, citeremo: il prof. Vittorio Bachelet (12 febbraio 1980 all’Universita’ di Roma) V.Presidente del Consiglio superiore della Magistratura, con gli altri due magistrati Giacumbi ( 16 Marzo) e Minervini (18 Marzo) per mano delle BR.
Negli stessi mesi viene approvata la cosiddetta “Legge Cossiga” del 6 Febbraio 1980, pochi settimane prima dell’azione dei carabinieri in Via Fracchia. A quella azione le BR risposero con l’attacco ad una sede milanese della DC e la gambizzazione di quattro esponenti di quel partito.
Ed ancora, le confessioni di Peci, il quale chiamò in causa Marco Donat Cattin, provocheranno la triste vicenda collegata al leader di Forze Nuove, dopo la sua drammatica ed incauta richiesta a Roberto Sandalo di ricercare suo figlio per comunicargli quanto Peci aveva dichiarato nel verbale del suo pentimento. E Roberto Sandalo, arrestato il 29 aprile 1980 (alcuni giorni dopo del colloquio tra il sen Carlo Donat Cattin, V.Segretario nazionale della DC, e l’allora Presidente del consiglio, Francesco Cossiga) due giorni dopo l’arresto si “pente”, rivelando il presunto e del tutto infondato favoreggiamento di Cossiga nei confronti di Donat Cattin, Si aprì, così, una crisi tremenda all’interno della DC (ministro degli Interni, Virginio Rognoni) ed una ferita al cuore del povero Carlo che non sarà più rimarginata sino alla sua morte ( 1991). Noi che di quella tragedia umana e politica fummo spettatori e partecipanti dolorosi, quali militanti attivi nella corrente di Forze Nuove, abbiamo vissuto insieme a Carlo Donat Cattin tutta quella triste stagione che, dopo la morte tragica di Marco ( la notte del 19 giugno 1988 sulla strada, presso Verona, mentre soccorreva un ferito a terra per un incidente, veniva travolto da un’auto che lui tentava di fermare in cerca d’aiuto ) di lì a qualche anno porterà anche il nostro leader ad una morte post operatoria dopo una lunga malattia cardiaca, sopportata con la grinta e la forza indomita della sua fede. Una vicenda umana e politica che ho avuto occasione di approfondire con il mio saggio “ Il caso Forze Nuove-dal preambolo alla quarta fase”- Ed Cinque Lune-1993.
E, intanto, le confessioni di Sandalo portano allo smantellamento di Prima Linea. Dopo Peci, a Maggio del 1980, viene arrestata Anna Laura Braghetti, mentre a Napoli, con l’uccisione di Pino Amato, assessore regionale della DC, nasce la colonna napoletana delle BR.
Maggio 1980 e’ anche il mese dell’uccisione del povero Walter Tobagi, giornalista socialista de “Il corriere della sera” ad opera della colonna BR “28 Marzo” (cosi’ intitolata nel ricordo della data della strage di Via Fracchia a Genova). E sara’ proprio a Maggio che, per la prima volta nella storia della Repubblica, il PCI di Berlinguer chiede che il presidente del Consiglio Cossiga, venga interrogato dalla commissione inquirente sul caso Donat Cattin, con l’accusa di attentato alla Costituzione.La Commissione decide l’archiviazione con 11 voti favorevoli e 9 contrari. Il caso, tuttavia, per assenza del quorum dei 4/5 richiesti, passa all’esame del Parlamento in seduta comune. E, intanto, Carlo Donat Cattin si dimette dall’incarico di V.Segretario della DC. Solo a Luglio, il parlamento, in seduta comune e con voto a maggioranza assoluta, decide l’archiviazione del caso Cossiga-Donat Cattin e il non rinvio del Presidente del Consiglio al giudizio dell’Alta Corte Costituzionale per i reati di favoreggiamento e violazione del segreto d’ufficio
Con le confessioni di Sandalo viene smantellato ilgruppo torinese di Prima Linea di via Staffarla e quello milanese del Lorenteggio. Sono passati quattro anni (1976-1980) e cosi’ finisce uno dei gruppi piu’ violenti e feroci del terrorismo italiano, tra l’altro, responsabile dell’assassinio del giudice Emilio Alessandrini.
Con la fine di Prima Linea anche nelle Brigate Rosse, nell’agosto del 1980 avviene la prima scissione ufficiale, nel momento in cui la brigata milanese “Walter Alasia” si rende autonoma dall’esecutivo.L’esecutivo delle BR, nel dicembre di quello stesso anno, decreta l’espulsione dal movimento della brigata “Walter Alasia” ( che nel frattempo ha portato a compimento numerosi attentati contro dirigenti dell’Alfa Romeo e della Marelli ) e il 12 dicembre a Roma, Mario Moretti e Giovanni Senzani, realizzano il sequestro D’Urso. Marco Donat Cattin, intanto, viene arrestato a Parigi e consegnato alle autorita’ italiane il 27 Febbraio del 1981.
Seconda e terza generazione BR e la lunga transizione (1981-2002)
Nel settembre del 1980, la Fiat annuncia i licenziamenti di 15.000 operai e la cassa integrazione per 23 mila dipendenti. Berlinguer, il 26 settembre, in un appassionato comizio davanti ai cancelli di Mirafiori, porta il sostegno del PCI per lo sciopero ad oltranza dei lavoratori. Ma non è più stagione di lotta. Ai blocchi organizzati degli operai, il 14 ottobre risponde la marcia dei 40.000 colletti bianchi Fiat che segna la fine della lunga stagione delle lotte operaie avviata nel 1968 (autunno caldo), la fine di un’epoca e l’inizio degli anni ’80. Seguiranno anni (1981-1987) caratterizzati ancora da episodi di feroci esecuzioni e dagli ultimi fuochi delle colonne napoletane dei nuclei comunisti fino all’uscita dei primi documenti BR che parlavano di “ritirata strategica”, mentre, dopo il “decreto di San Valentino” sulla scala mobile (14 febbraio 1984) (punto massimo dello scontro tra il riformismo craxiano e il PCI e all’interno del sindacato tra le componenti cattolica della CISL e socialista dell’UIL e CGIL e quella comunista della CGIL.
Il 27 Marzo del 1985 a Roma, viene ucciso proprio l’economista d’area CISL, Ezio Tarantelli, tra i teorici sostenitori della riduzione e del successivo blocco della scala mobile, avviando un percorso che vedrà le due ultime vittime illustri in Sergio D’Antona e Marco Biagi alla fine degli anni’90. Seppure nell’aprile del 1987 i capi storici delle prime BR (Curcio,Moretti, Iannelli e Bertolazzi) dal carcere fecero recapitare alcune lettere a Rossana Rossanda , illustre giornalista de “Il Manifesto”, con le quali dichiaravano conclusa l’esperienza della lotta armata, la stessa come un fiume carsico non si era estinta del tutto e vecchi e nuovi adepti, a fasi alterne, continuarono ed ancora continuano a colpire, Sarà proprio la colonna romana, un tempo guidata da Alessio Casimirri ( l’ultimo dei brigatisti di Via Fani ancora latitante e di cui dal 2004 si sta chiedendo invano l’estradizione dal suo rifugio dorato in Nicaragua) e da sua moglie Rita Algranati ( l’antica militante “Marzia”, anch’essa in Via Fani, prima latitante in Angola e poi arrestata nel 2004 in Algeria) a mantenere in vita ciò che rimaneva e resta delle vecchie e nuove BR, oggi, come ieri, soprattutto orientate a colpire intellettuali di quell’area riformista da sempre contrastata ed oggetto dell’odio del partito armato.
Dopo l’omicidio del povero Roberto Ruffilli ( 16 aprile 1988) viene alla ribalta la cosiddetta terza generazione delle Brigate Rosse quelle che si resero responsabili proprio degli omicidi Tarantelli, Conti e Ruffilli cui seguirono numerosi arresti mentre cominciava la battaglia politico legale per l’amnistia o l’indulto con la volontà di porre fine alle tragedie causate dal partito armato e per voltare pagina nel libro della storia italiana degli ultimi trentacinque anni.
Non a caso il 23 ottobre del 1988 gli “irriducibili” Abatangelo, Cassetta,Prospero Gallinari, Lo Bianco, Seghetti ed altri, in un documento dal carcere scrivevano:” Oggi le Brigate Rosse coincidono di fatto con i prigionieri politici delle Brigate Rosse….Occorre portare la propria esperienza storica sul terreno della lotta politica…La prima battaglia da fare è quella per un’amnistia politica generale….La lotta armata contro lo Stato è finita”.
Ottima dichiarazione cui, purtroppo, non si adeguarono quanti, dopo quella data, continuarono, seppur con minore capacità e continuità di azione, ma non con meno ferocia, la lotta armata contro “ i servitori dello Stato capitalista”.
E proprio gli omicidi eccellenti di D’Antona e di Marco Biagi ci riportano alla dura realtà dei nostri giorni.
Dal “preambolo” alla seconda repubblica
Con l’assassinio di Aldo Moro, il fallimento della politica di unita’ nazionale, l’avvento del “preambolo” e della cosiddetta “terza fase” ( per usare un’espressione coniata sull’omonima rivista dal leader della sinistra DC, Carlo Donat Cattin) si entra nell’ultima stagione della Prima Repubblica. Una stagione che vedra’ da un lato, l’affermazione politica del pentapartito, caratterizzato dalla lunga ed estenuante guerra di logoramento tra la dirigenza demitiana della DC e quella vincente craxiana alla guida del PSI. Una stagione in cui si assiste all’implosione dell’URSS dopo l’esperienza gorbacioviana della glastnost e della perestroika; al crollo del muro di Berlino (1989); alla mutazione genetica dell’ex PCI, dopo la svolta occhettiana della Bolognina e alla fine mediatico-giudiziaria, sotto i colpi di “mani pulite”, dei cinque partiti che avevano caratterizzato la piu’ che quarantennale vicenda della Prima Repubblica.
Il mattarellum (nuovo ibrido sistema elettorale maggioritario con residue quote proporzionali) da un lato, la persecuzione giudiziaria pressoche’ a senso unico dall’altra, l’oggettivo superamento della funzione storica della DC anche per l’impotenza pugnandi della sua ultima dirigenza politica, sono stati, con il raggiungimento, potremmo dire, degli scopi sociali del partito dei democratici cristiani, i fattori determinanti dell’avvento della cosiddetta seconda Repubblica.
Il fallimento della gioiosa macchina da guerra occhettiana, da un lato, e la “scesa in campo” del cavaliere di Arcore dall’altro, con la dispersione in mille meteoriti della galassia bianca democristiana, hanno cosi’ caratterizzato lo scenario politico degli anni’90.
In questi 27 anni che ci separano dalla vicenda drammatica del rapimento e assassinio di Aldo Moro, il fenomeno delle BR e dei gruppi di lotta terroristica interni, seppur si e’ andato progressivamente riducendo, ha, comunque, determinato una ancora lunga catena di attentati e di morti.
Abbiamo ricordato quelli piu’ eclatanti: i casi drammatici delle uccisioni dei professori Ezio Tarantelli (27 marzo 1985), Roberto Ruffilli ( 16 aprile 1988), Massimo D’Antona (20 maggio 1999), consulente del Ministero del Lavoro all’epoca del governo guidato da Massimo D’Alema, e Marco Biagi (19 Marzo 2002, davanti alla sua casa a Bologna), consulente del ministero del lavoro del governo Berlusconi. Sono uccisioni che segnano in maniera drammatica la svolta strategica e politico-culturale di un movimento che, ancorche’ ridotto profondamente nella sua consistenza numerica, continua a fasi ricorrenti e alterne a colpire non piu’ e non tanto i simboli diretti del potere politico partitico, quanto piuttosto coloro che di quel potere sono in qualche misura il substrato teorico e la tecnostruttura di riferimento sul piano dell’elaborazione economico-finanziaria (Tarantelli), politico-istituzionale (Ruffilli), del giuslavorismo (D’Antona e Biagi). Insomma dai rappresentanti formali del potere (Moro, Bachelet, Amato, Cirillo e tanti altri piu’ o meno illustri politici, soprattutto democristiani) servi del SIM, oggetto dell’odio nelle elaborazioni teoriche delle prime BR, alle tecnocrazie universitarie che ne costituiscono il substrato essenziale.
Quali conclusioni?
Ho tentato di ricostruire, seppur schematicamente, un fenomeno dalle variabili multiformi e complesse quale il terrorismo, la cui analisi ed interpretazione deve essere, oltreché di tipo interdisciplinare, condotta sui tre livelli essenziali in cui si e’ manifestato ed ancora, in qualche seppur rara occasione, si manifesta:
· reclutamento;
· la presenza organizzata sul territorio;
· l'insieme delle azioni concretamente realizzate.
Una prima ricomposizione sintetica del fenomeno può essere così formulata: a 30 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, agli inizi dei ’70, il fenomeno della violenza politica e del terrorismo ha diffusione mondiale,dagli USA alla Spagna, dalla Francia alla Germania e all’Italia. Ciò che e’apparso tipico di tale fenomeno universale è questo insieme di caratteristiche:
· il rifiuto della negoziazione;
· il carattere segreto dell'organizzazione (clandestinità);
· il reclutamento selettivo, ma sempre fra gruppi in età giovanile;
· una giustificazione ideologica e un retroterra teorico.
Per quanto riguarda il terrorismo italiano notiamo:
· il suo carattere fondamentalmente urbano (la città come realtà producente diffusa criminalità) e spazio privilegiato delle tensioni radicali che hanno scosso per diversi anni un sistema sociale in transizione;
· una certa indeterminatezza degli obiettivi (attacco al cuore dello Stato, guerriglia urbana generalizzata contro lo Stato imperialista delle multinazionali) tanto che il terrorismo non sembra avere uno scopo al di fuori di se’, ponendosi dunque contemporaneamente come strumento e come fine;
· un'alleanza operativa tra criminalità politica e criminalità comune (il carcere come università del crimine e terreno ideale per il reclutamento dei terroristi);
· il suo carattere giovanile (giovani, per lo più acculturati, non laureati);
· la presenza della figura del «terrorista pentito», quasi esclusiva del terrorismo italiano;
· il coesistere permanente dei due terrorismi di opposta matrice.
Va evidenziato che un fenomeno che si e’trascinato con ondeggiamenti diversi e contradditori per qualche decennio non si e’potuto muovere nel "vuoto sociale", ma (teoria dei «cerchi concentrici» di cui parlo’ l’allora ministro degli interni Rognoni) pote’ contare su complicità più o meno dirette che, tra l'altro, emersero a vari livelli ed in un clima che in alcuni casi è stato di relativa accettazione, se non di aperto favore.
Una contestazione strisciante contro le istituzioni burocratico-amministrative porto’ a saldarsi un atavico qualunquismo antistatalistico con le conseguenze, ai vari livelli (strutturale e culturale), della grande trasformazione socio-economica del paese (una rivoluzione industriale che, ad esempio, in Inghilterra ha richiesto due secoli, pesando su più generazioni, qui è intervenuta in un breve arco di 20 anni, pesando su una o due sole generazioni e, quindi, con costi sociali elevatissimi e con una qualità media della vita, italiana, profondamente alterata).
Tale sviluppo impetuoso, non mediato in senso universalistico dalle istituzioni politiche, ha pesato soprattutto sui gruppi sociali periferici e giovanili mentre va evidenziato come partiti e sindacati abbiano totalmente mancato il fenomeno formativo del nostro paese.
Le ragioni del mancato isolamento sociale del terrorismo vanno ricercate oltre che in fattori soggettivi, nel modo stesso, concreto ed effettivo, in cui hanno mal funzionato molte nostre istituzioni. Quando manca il canale di partecipazione tra le persone e le istituzioni, chi è privato di tale contatto spesso non vede altra via dell'azione terroristica in proprio o per via vicaria, e, così, «l'antico furore contadino si salda con la nuova rabbia urbana» (Ferrarotti).
Tornando ad un'interpretazione più direttamente storico-politica del fenomeno, al fine di superare il rischio di interpretazioni riduttive ed ideologiche o, peggio, della semplice «demonizzazione», ma tentando di cogliere i caratteri strutturali della crisi italiana che ha generato un uso politico così esteso della violenza, da parte di forze diverse per estrazione ideologica e culturale, possiamo sottolineare un salto netto tra prima generazione BR e tra BR e Prima Linea. Così, mentre tra i terroristi del «nucleo storico» BR vi è sempre alle spalle una precedente esperienza, un'attività politica legale più o meno lunga, nella seconda generazione quasi scompare.
Inoltre tra le BR c'è la presenza di un modello terzo-internazionalista, da partito comunista clandestino, nella stessa organizzazione e nel reclutamento; questo manca in PL dove, semmai, prevalgono i caratteri propri del modello della sinistra extraparlamentare o dei miti di guerriglia diffusi alla fine degli anni '60 (ognuno sapeva tutto di tutti). Circa i rapporti tra terrorismo e centrali estere (servizi segreti stranieri) in concreto, dopo le confessioni di alcuni pentiti, sappiamo dell'arrivo di armi e dell'addestramento sia in medio-oriente che in alcuni paesi dell'est. Ma i caratteri fondamentalmente «interni» sono prevalenti e non si può certo affermare che la lotta armata sia partita da «centrali estere», anche se è possibile si sia verificata più di una interferenza di servizi segreti.
In fondo al tunnel difficile della storia di questi ultimi 30 anni ci troviamo di fronte questo problema dalla cui soluzione dipende la sopravvivenza stessa dei nostri ordinamenti democratici. Senza sottovalutare il ruolo che centrali estere possono aver svolto e quotidianamente svolgono per destabilizzare un'area strategica tra nord-sud ed est-ovest, dobbiamo assumere piena consapevolezza che il terrorismo italiano ci appartiene come parte essenziale, seppur traumatica della nostra storia, della vicenda politica degli ultimi 30 anni. Ci appartiene perché collegato allo sviluppo abnorme, lacerato e distorto di una società che ha conservato residui di arretratezza antichi accanto ad altre realtà che si collocano ai livelli più elevati dell'occidente. Ad una realtà di democrazia politica rimasta bloccata e senza ricambi per oltre 40 anni; alle megalopoli che sono venute dilatandosi mostruosamente negli ultimi 20-30 anni; alla crescita culturale senza apparenti sbocchi di tanta parte delle allora giovani generazioni; agli sradicamenti sociali e culturali che si sono aperti tra città e campagna, tra nord e sud, per milioni di famiglie.
Né va dimenticata la componente ideologico-culturale del consumismo dilagante da un lato, e la tendenza ad un ideologismo astratto di gran parte della nostra cultura privata di sicuri ancoraggi pragmatici e scientifici dall'altro; dalla predicazione martellante e corrosiva di «Maîtres à penser» che per anni nei licei ed università hanno più teorizzato lo scontro e la ribellione che la ricomposizione e l'integrazione sociale, alla crisi spirituale e morale collegate, anche, a quella della stessa presenza organizzativa e formativa dell'istituzione ecclesiale.
Ma al fondo vi è stata l'incapacità complessiva del sistema politico a promuovere risposte riformatrici ai grandi squilibri e alle contraddizioni antiche e nuove. Mancanza di una proposta alternativa concreta che sapesse sbloccare correttamente il sistema. Il problema è sorto, si è sviluppato e pote’ essere sostanzialmente risolto solo considerandolo soprattutto nella sua dimensione politica; ciò significa che una lotta al terrorismo che non affronti le disfunzioni del sistema politico, il distacco crescente tra Stato e società, la crisi gravissima delle nuove generazioni e si limitasse a semplici seppure necessarie misure di polizia, non può avere successo. Oggi, che agli sporadici attacchi di qualche piccolo nucleo terrorista interno, viviamo la ben piu’ consistente e permanente minaccia del terrorismo di matrice islamica, come ieri, quando infuriava l’azione delle BR e formazioni combattenti similari.
Mi piace, alla fine, ricordare il contributo fornito dal compianto sen. Cesare Golfari in un lontano convegno della DC a Salsomaggiore (1982) quando sostenne la teoria “di un terrorismo che si diffonde in ragione inversa alla capacità di governabilità delle forze politiche del sistema”. Egli cito’ la rottura della solidarietà nazionale da parte del PCI, come presa d'atto, innanzitutto ed al di là delle altre motivazioni tattiche e/o propagandistiche, di una intervenuta rottura nella società civile con fratture gravi alla sua sinistra, l'esigenza di non confondere il governo con la governabilità e di ripristinare il corretto funzionamento del sistema tra una maggioranza che governa ed un'opposizione che controlla. A ben vedere sono queste, ora come allora, le pre-condizioni fondamentali per una prima risposta politica al terrorismo. E’ nei momenti di una crisi generalizzata della politica, nel senso di una persistente incapacità delle associazioni politiche e delle istituzioni statali ad arginare, universalizzare e soddisfare i bisogni e i diritti essenziali dei gruppi e degli individui che il fenomeno terroristico puo’ riprendere fiato.Allora la strada per superare democraticamente le crisi e sconfiggere il terrorismo, oggi come ieri, è quella di ripristinare e rinnovare la politica. Convincimento questo che fu anche quello di Aldo Moro; anche dell'ultimo Moro incarcerato dalle BR forse da molti di noi non saputo, né voluto intendere. Moro dal carcere non chiedeva allo Stato un'impossibile compromesso politico con i terroristi per salvare la sua sola vita individuale, ma per completare l'operazione politica che egli forse solo poteva tentare per risolvere il massimo problema politico italiano: rinnovare la DC (evitandone la disgregazione, ahime’ purtroppo nel frattempo intervenuta, e mantenendola sul terreno democratico) consentendo nel contempo l'avanzata ed il compimento della «lunga marcia» di legittimazione del PCI come forza di governo statale.
Moro sapeva meglio di tutti che lo Stato era impossibilitato a trattare, così cercava di dividere all'interno le BR (c'era quasi riuscito), prendeva tempo e dava indicazioni per le ricerche, indicava una strada che troppo lentamente stiamo ancora percorrendo, seppur con tanti limiti, errori e contraddizioni e in quadro interno e internazionale assolutamente nuovo e carico di ancor piu’ consistenti sfide ed opportunita’.